Ieri in un’intervista al Corriere della Sera il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, rispondendo al giornalista che gli chiedeva come mai spesso le sue inchieste vengano ridimensionate, ha detto: «Noi facciamo richieste, sono i giudici delle indagini preliminari, sempre diversi, che ordinano gli arresti. Così è avvenuto anche in questo caso. Poi se altri giudici scarcerano nelle fasi successive non ci posso fare niente, ma credo che la storia spiegherà anche queste situazioni» . Ne parliamo con Giuseppe Cricenti, magistrato, consigliere della Suprema Corte di Cassazione.

Come giudica questa affermazione?

Mette giustamente in evidenza che ad accogliere le misure cautelari non è sempre il medesimo giudice, ma sono giudici diversi, il che dimostra che c’è un fondamento. Andrebbe tuttavia fatto il medesimo ragionamento anche per le assoluzioni, dove pure i giudici sono sempre diversi. Quanto alla previsione che la storia spiegherà il perché di quelle assoluzioni, non è chiaro a cosa si riferisca. I giudicati resistono alla storia: se invece si intende dire che emergeranno ragioni di assoluzione diverse da quelle processuali, allora mi pare una insinuazione scorretta.

Non c’è il rischio che i giudici che si troveranno a valutare inchieste di Gratteri possano perdere la dovuta serenità?

I giudici non si fanno di certo condizionare da interviste. In generale, resta comunque un problema delicato: se un pm va continuamente in tv o rilascia sistematiche interviste sulle inchieste in corso, alimenta la tendenza a fare i processi mediatici, che già in Italia hanno raggiunto una rilevanza inaccettabile, ed a bollare di colpevolezza persone che poi, purtroppo a distanza di anni per la lentezza della giustizia, risulteranno assolte, ma che nell’immaginario collettivo rimangono impresse secondo l’immagine negativa divulgata a suo tempo.

Non sarebbe opportuno che l'Anm stigmatizzasse questa dichiarazione di Gratteri?

Certo, se col dire che “la storia spiegherà queste situazioni” si intende dire che non sono state assoluzioni corrette processualmente, ma che invece sono state determinate da altro, allora si tratta di una allusione che getta discredito su chi è intervenuto in quelle decisioni, e sull’intera Magistratura: non mi pare deontologicamente corretto che un pm faccia allusioni sulle sentenze sfavorevoli.

Gratteri ha aggiunto ' Io non faccio politica con le mie inchieste'. È così?

Certo, non fa politica in senso stretto, né mira a condizionare gli elettori o ad incidere sugli esiti elettorali, tanto meno a determinare governi o parlamenti. Ma il problema non è questo: è una questione politica, infatti, quella dei fondamenti dell’etica pubblica. Dovrebbero concorrervi sistemi normativi diversi, dalla religione, alla deontologia, al diritto nel suo complesso, alla stessa politica, che, a suo modo, è un sistema normativo anche esso. Invece, l’etica pubblica in Italia è in gran parte dettata dal diritto penale, ed all’uso che ne fanno alcune Procure. L’azione moralizzatrice delle Procure fornisce supporto alla politica militante, che se ne avvale per propagandare soluzioni penal- populistiche anche in questioni dove l’incriminazione potrebbe essere evitata. Non è un fenomeno esclusivamente italiano. Negli Stati Uniti è ben descritto da Jonathan Simon. In questo senso, alcuni pm, che si muovono con una certa attenzione al contesto, fanno certamente politica.

L'anno scorso, all'inaugurazione dell'anno giudiziario il pg Salvi disse: mai cercare nell’azione inquirente «il consenso della pubblica opinione». Secondo Lei Gratteri ha aderito a questa richiesta?

Direi di no. Non c’è indagine che non sia accompagnata da interviste e comparse televisive, che non servono ad informare dell’accaduto: per quello bastano le conferenze stampa apposite. E spesso si va li a sostenere la bontà della propria azione davanti alla opinione pubblica. Io proporrei che per ogni inchiesta vi siano comunicati stampa in cui si tace il nome del pm che l’ha condotta e si diano solo le informazioni che sono di interesse pubblico. Non sarebbero violati né il diritto a fornire l’informazione né quello ad averla. Il nome del pm non è necessario, e vieterei a chi ha condotto una indagine di rilasciare interviste su quanto ha fatto, o peggio, di farne propaganda sui social.