«Lo Stato italiano non avrebbe dovuto dare corso ai respingimenti informali in mancanza di garanzie sull’effettivo trattamento che gli stranieri avrebbero ricevuto in Slovenia in ordine al rispetto dei loro diritti fondamentali, primi fra tutti il diritto a non subire trattamenti inumani e degradanti e quello di proporre domanda di protezione internazionale». A metterlo nero su bianco è il Tribunale di Roma, sezione per i diritti della persona e immigrazione, che con un’ordinanza datata 18 gennaio 2021 definisce «illegittima» la «prassi adottata dal Ministero dell’Interno in attuazione dell’accordo bilaterale con la Solvenia». E condanna il Viminale al pagamento delle spese processuali in favore del ricorrente: un ragazzo pakistano di 27 anni, Mahmood, riammeso in Slovenia lo scorso luglio e respinto in Croazia secondo un meccanismo “a catena” che dal confine lo portava infine in Bosnia.

Nel provvedimento emesso dalla giudice Silvia Albano, che accoglie il ricorso, si ordina quindi alle «amministrazioni competenti di consentire al ricorrente l’immediato ingresso sul territorio italiano al fine di presentare domanda di protezione internazionale». Si tratta di un’ordinanza storica, il primo pronunciamento di questo tipo che fa luce sulla prassi dei respingimenti informali lungo il confine italo sloveno, derivati da un accordo bilaterale sottoscritto nel 1996.

Un accordo mai ratificato dal parlamento italiano - precisa il Tribunale - e che quindi, secondo l’articolo 80 della Costituzione, deve essere eseguito in ossequio alle disposizioni interne e internazionali. Diversamente, insomma, dalle modalità emerse dal caso di specie che configurano la violazione di numerose norme italiane e sovranazionali: a partire dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, fino alla nostra Costituzione. Ai cui precetti si aggiungono i pronunciamenti della Corte Edu che ha più volte condannato l’Italia in circostanze simili. La storia di Mahmood, infatti, non ci trova impreparati. La sua sorte è quella di molti altri migranti che intraprendono la cosiddetta “rotta balcanica”: il “game”, ovvero la traversata lastricata di violenze e «trattamenti inumani», come ampiamente documentato dalle Ong che operano sul territorio e dalla stampa italiana e internazionale.

In questo caso, Il giovane pakistano, in fuga dalle persecuzioni subite nel proprio paese «a causa del proprio orientamento sessuale», raggiungeva finalmente Trieste dopo un viaggio infernale. Qui, insieme a un gruppo di migranti pakistani, manifestava «la volontà di proporre domanda di protezione internazionale». Ma, in assenza di un provvedimento convalidato dall’autorità giudiziaria, come prevede la legge, veniva respinto fino in Bosnia, dove si trova tuttora. Ed ecco la prima violazione: in base all’articolo 2 dell’accordo bilaterale, i respingimenti possono essere eseguiti solo nei confronti di stranieri irregolari, e non di coloro che presentano domanda d’asilo. Richiesta che, per altro, può essere presentata anche oralmente.

Ma la sfilza di violazioni contestate alle autorità italiane non si esaurisce qui. L’ordinanza riporta l’intera testimonianza del ricorrente: una storia di violenza e torture da parte delle autorità slovene e croate, documentate anche da un dossier fotografico. Trattamenti noti e diffusi ai danni dei migranti che le nostre autorità avrebbero dovuto conoscere, sottolinea il giudice. La cui decisione poggia su una solida giurisprudenza, interna e internazionale, che mette al centro la tutela della persona e tiene conto dei pericoli a cui è esposto lo straniero che venga trasferito in un altro Stato.