Era come andare a prendere l’acqua al pozzo. Lo capii quando tirò fuori quel proverbio cinese, che vale per la politica non meno che per la vita di ogni giorno: “chi prende l’acqua da un pozzo, non dovrebbe dimenticare chi l’ha scavato”. Emanuele Macaluso non dimenticava nulla, non dimenticava mai. Non si può dimenticare. Ma per chi l’ha conosciuto il problema non è questo. Il problema è come andare ancora al pozzo, ancora all’acqua.

La prima volta l’incontrai per il suo libro più bello, l’autobiografia sui Cinquant’anni nel Pci. Era l’inizio del 2004, a Livorno. Una sera d’inverno, c’era un forte vento. Io arrivavo da Pisa, dove studiavo da un paio d’anni. Eravamo un gruppo di amici e compagni, intellettuali e militanti. A parlarne invitarono me, siciliano, della provincia di Caltanissetta, la sua. Quel libro mi svelò un mondo, un certo modo di stare al mondo. Alla fine della discussione mi chiamò. “Di dove sei”? Di Milena, risposi. “Milocca, vuoi dire!”, disse richiamando il nome antico, che pochi conoscono, del mio paesello, poco conosciuto di suo. “Ci ho fatto il mio primo comizio. Per la Repubblica. Su un balcone, di fronte la chiesa madre. Ricordo una piazza piena di donne, col fazzoletto rosso. Ero giovane. Feci un discorso molto acceso contro la Monarchia. Quando finii si avvicinò il Maresciallo dei Carabinieri. Dalla prima all’ultima parola, disse, ho avuto la tentazione di spararle in fronte. La ringrazio per non averlo fatto, dissi. E me ne andai”. Rise, Emanuele. Come rideva lui. Il giorno dopo, ne scrisse. Ma dopo quell’incontro, dopo un incontro così, giurai di non lasciarlo più. È stato un maestro, per me che appartengo a una generazione senza maestri. E presto sarebbe diventato qualcosa di più e di diverso. Un riferimento vitale.

Lui mi chiedeva dell’oggi, io della Caltanissetta del fascismo e della guerra. In quel mondo di miseria e sfruttamento maturarono i suoi sentimenti, le sue domande, la sua vocazione politica. (…). Le letture arrivarono dopo, “I miserabili”, “La madre” di Gorkij, Tolstoj. E quel travaglio confidato a un compagno più grande, che andò a trovarlo in sanatorio, un atto di coraggio che gli parve più grande persino di quei discorsi antifascisti e socialisteggianti che andavano facendo.

C’era la sua indole – da rompicoglioni, avrebbe detto lui – che l’ha accompagnato per tutta la vita. Quel non accontentarsi mai di quello che passa il convento, anche quando il convento era il suo Partito. Aveva un innato spirito di contraddizione, per ciò che gli pareva ingiusto o, peggio, insensato. Così fu per il fascismo, la provincia feudale, la fede: ebbe un periodo valdese, Emanuele, per contestare meglio la chiesa cattolica dove pure aveva incontrato un padre nobile della Dc siciliana, l’avvocato Giuseppe Alessi, di cui ascoltava le prediche in cattedrale perché “parlando di religione, parlava di libertà”.

La ricerca della libertà, in quella Sicilia dei primi anni quaranta, era una cosa sola con la giustizia e l’uguaglianza. Fu così che divenne comunista, senza sapere nulla di Gramsci e Togliatti, di Lenin e Marx. I comunisti erano quelli più coerenti, uomini esemplari come Calogero Boccadutri, Pompeo Colajanni, Girolamo Li Causi.

Boccadutri era il mitico capocellula, volle bene a lui e ai suoi figli, Nicola e Franco, come ai propri figli, Antonio e Pompeo. Ma era stato proprio lui il primo a contrastarlo quando s’innamorò di Lina, già sposata con due figli. Macaluso era intelligentissimo, lo sanno tutti. Era anche elegantissimo, nelle foto di allora. I signorotti non sopportavano l’affronto di quel giovane comunista. Convinsero quel marito disgraziato a denunciarli. Finirono in galera, per adulterio. Quell’amore avrebbe messo sempre in difficoltà il partito, e perciò il partito dei Boccadutri sarebbe sempre stato contro.

Fu così che Macaluso andò al sindacato dove “c’era allora più libertà… E io, la mia, l’ho sempre difesa”. A 23 anni divenne il primo segretario della Cgil siciliana, la Cgil unitaria, scelto da Giuseppe Di Vittorio in persona, a Caltanissetta... «A pensare oggi a quegli anni mi pare che mai più avrò nella mia vita sentimenti così intensi, così puri. Mai più ritroverò così tersa misura di amore e di odio; né l’amicizia la sincerità la fiducia avranno così viva luce nel mio cuore». È la frase di Leonardo Sciascia, che Emanuele ripeteva ripensando all’epopea di quegli anni.

(...) Nel ‘ 56, proprio nei giorni drammatici dell’Ungheria, lasciò la Cgil di Di Vittorio, cui era molto legato e che se ne lamentò, per passare al partito, per volere di Togliatti. Dalla Sicilia, divenne un protagonista nazionale con l’operazione Milazzo, che in un solo colpo ruppe il monopolio di governo della Dc, gli equilibri internazionali e l’unità dei cattolici. La reazione di apparati e Vaticano fu dura. In quegli anni, crebbe il suo rapporto con il Migliore, che lo chiamò nella segreteria nazionale. Per nessun altro uomo politico, Emanuele, proverà la stessa ammirazione. (...) La politica è stata per lui un “bisogno di vita” e alla vita è tornato sempre per nutrirla, senza dottrinarismi, lottando anche in un corpo rigido, cercando la contaminazione e a volte la dissacrazione: tutte cose che rendono la cultura e la politica veramente popolare, non un privilegio di classe o di ceto.

La caduta del Muro e la fine del Pci coincisero con l’interruzione dell’impegno istituzionale di Macaluso. Fuori dal Parlamento e dalle Botteghe oscure inizia una stagione nuova della sua vita attiva. Fu una specie di liberazione per la sua indole polemica, che pure aveva esercitato sempre, anche da dirigente, nei corsivi a cui Giorgio Frasca Polara diede la firma em. ma. Sono gli anni della scrittura più acuminata, degli editoriali, della direzione di riviste e giornali.

Quel passaggio fu segnato anche dalla morte di Leonardo Sciascia. Sciascia, dopo la morte di Pasolini, come investito di una eredità speciale, scrisse: “Dicevamo quasi le stesse cose, ma io sommessamente. Da quando non c'è lui mi sono accorto, mi accorgo, di parlare più forte”. Qualcosa di simile, a mio avviso, è accaduto a Macaluso con Sciascia.

Dopo la morte dello scrittore di Racalmuto, Macaluso sente il dovere di far vivere le idee sulla giustizia, un «cordone ombelicale» che li ha legati per oltre sessent’anni, tra fatti pubblici e privati di ingiustizia patita, ma “parlando più forte”. Fuori dalle stanze della massima responsabilità politica, si sente libero di dire sempre la verità, anche quando è scomoda, anche quando non è rivoluzionaria. Per questa via, anche Emanuele è diventato un po’ «eretico», a sinistra. Fino alla scomunica, come nella polemica sul processo Andreotti. Perché, si sa, “gli eretici sono sempre più colpiti che gli infedeli”.

Allora lui combatteva più forte. Perché sui diritti e la giustizia parlava con la franchezza che può permettersi soltanto un campione dell’antimafia. E lui lo era. Di quella vera, non quella parolaia dei professionisti o dei dilettanti. Quella che è stata lotta politica e sociale, fino allo scontro fisico nei feudi coi gabelloti, alle bombe e alle schioppettate di Villalba.

Fu garantista fino al midollo, come chi ha conosciuto la galera, le troppe storie di ingiustizia dentro la storia della giustizia italiana. “Né mafia né Mori”, per sempre. Fu nemico del giustizialismo, soprattutto a sinistra, perché vi vedeva non solo un cedimento culturale rispetto ai valori fondanti, ma anche il venir meno dell’ancoraggio alla giustizia sociale che è la vera sostanza della giustizia. Di più, vi vedeva il riaffiorare di quelle scorciatoie massimaliste che aveva sempre combattuto nella vita, ma peggio: un massimalismo non di campi e officine ma di manette e aule di tribunale; un massimalismo senza popolo, senza sinistra. Cominciai a frequentarlo, a collaborare con lui, negli anni in cui cercava nuove Ragioni del Socialismo. Alla Rivista, a Torre Argentina. Lo seguii al Riformista, un’ironia quella sede dov’era Rinascita, a Botteghe Oscure. Negli ultimi anni, l’appuntamento fisso era una convocazione: “Venerdì, alla Torricella”.

Mi chiedeva del Mezzogiorno, e anche delle cose più minute della politica. È rimasto sempre un dirigente politico. Ascoltavo le sue opinioni e anche le sue freddure sulle cose, gli uomini e i mezz'uomini della politica, e della sinistra.

(...) Ha avuto una gran vita, vittorie e sconfitte, grandi amori e grandissimi dolori. È stato generoso nel raccontarli. Alcuni, li ha solo confidati. Molte volte mi ha chiesto di accompagnarlo. Alla presentazione di un libro, a un convegno, per un viaggio. L’ultimo fu in Sicilia, un anno e mezzo fa. Per un ultimo comizio a Portella della Ginestra, dove aveva tenuto il primo dopo la Strage. Sapeva che non sarebbe più tornato. Parlò a braccio, come sempre. Ma un po’ più a lungo. Ricordò braccianti, operai dei cantieri navali e zolfatari senza paga per i giorni e i mesi delle lotte, degli scioperi. Ricordò le notti senza pace e senza sonno, “Come credete che potessi dormire?”, le sere di quelle famiglie affamate, il povero cibo recuperato a credito nei paesi. Ricordò i compagni uccisi, “Non vi abbiamo dimenticato”, gridò. Lo commuoveva la frase di uno scrittore che amava, Joseph Roth. “La gente della mia terra ha una buona memoria perché ricorda con il cuore”. Macaluso, così duro, così pungente, così intelligente, aveva buona memoria perché ricordava con il cuore. E non ha mai smesso.

Il virus lo ha risparmiato, ma la pandemia lo ha colpito al cuore. Ha patito su di sé la sorte del Paese. I mesi del primo lockdown sono stati atroci. Si affacciava sulla Piazza, a Testaccio, non vedeva i bambini che giocavano. Per me, diceva, è come essere morto. Vivo una condizione di premorte. Ho l’affanno. Lo aveva salvato la montagna questa estate, come sempre. Lo raggiungevamo. L’anno scorso ci aveva regalato un piccolo miracolo domestico, coi primi passi di Caterina – “che nome da zarina”, si lamentò quando nacque. Lo abbiamo raggiunto anche quest’anno. Giovanni lo chiamava Yoda, come il maestro Jedi. Oppure, “il tuo allenatore”, con una specie di malizia. Gli mancava l’amico Giorgio, quest’anno. Era triste. Si era ripreso, però. Era stato bene.

(...) Sotto gli alberi di quella grande piazza, a Testaccio, tra le urla dei bambini e i sorrisi degli abitanti del quartiere, il grande vecchio mi prendeva sotto braccio, mi insegnava che bisogna sempre guardare non solo ai bisogni delle persone, ma anche ai loro desideri. Non solo alle sofferenze, ma alle loro gioie. Per me è stato come un padre. Un padre, in una Patria sempre più povera di padri. Ma non si resta orfani di padri come lui. Noi non siamo orfani. Una storia così, dallo zolfo alle stelle, è una storia che non muore. Si spegne il faro. Resta la scintilla. Per quel poco o tanto di lume, che ha fatto o che farà, in questa vita, la luce è sua.