«La cosa assurda sa qual è? Che si fa dipendere il diritto alla libertà delle persone dalla ricezione o meno di una pec. È una cosa di una gravità inaudita». Pierpaolo Montalto si sfoga, a stento trattiene la rabbia. Cerca di raccogliere le parole e i pensieri per raccontare una storia che sembra illogica, pericolossissima per i suoi risvolti. Per lui, penalista con una lunga carriera alle spalle, la pandemia si sta rivelando il più tragico degli spettacoli allestiti sul palcoscenico della giustizia. Perché ha vissuto sulla propria pelle quelle storture che a tanti, in questi mesi, hanno fatto venire l’amaro in bocca. Fino all’epilogo, assurdo, di una decisione sulla libertà di un detenuto, peraltro in gravissime condizioni di salute, presa in assenza del suo difensore, perché mentre l’udienza era in corso lui è rimasto appeso per ore, inutilmente, davanti ad uno schermo.

L'Odissea di un avvocato ai tempi del processo da remoto

La storia farebbe ridere, se di mezzo non ci fosse capitato un uomo che si è visto rigettare la richiesta di detenzione domiciliare, avanzata a causa del suo stato di salute. Possibilità negata, bypassando completamente il diritto imprescindibile alla difesa. Montalto, avvocato del foro di Catania, giovedì scorso avrebbe dovuto tenere udienza in un luogo molto distante dalla sua Sicilia. Ha chiesto, dunque, di potersi collegare da remoto, così come previsto dalle norme emergenziali. «Ho presentato richiesta via pec, così come mi era stato indicato, lasciando il mio numero di telefono per essere contattato, acconsentendo a tutto ciò cui dovevo acconsentire - racconta al Dubbio -. Mi era stato detto che sarei stato chiamato in mattinata per avviare la videoconferenza. Ma nonostante l’udienza fosse fissata per le 9.30, non ho ricevuto alcuna chiamata, rimanendo lì in attesa per tre ore». Ma non solo: l’avvocato ha provato a contattare la cancelleria, trovando, però, soltanto il silenzio dall’altra parte: telefono staccato. Nelle ore d’attesa ha pubblicato una foto sul suo profilo Facebook, che lo ritraeva con tanto di mascherina mentre, in studio, attendeva il collegamento. «Appena la inizia la riunione avviseremo gli utenti che sei in attesa», recitava una scritta in bianco sopra la sua immagine. E quel messaggio non è mai cambiato: il collegamento non c’è mai stato.

«La colpa? Non dei cancellieri, ma delle norme»

«Voglio fare una precisazione: credo che non sia un problema delle lavoratrici e dei lavoratori delle cancellerie, né dei giudici. Anzi, a loro va tutta la mia solidarietà: stanno vivendo i nostri stessi disagi. Vedo cancellieri e giudici lavorare in condizioni incredibili e inaccettabili. Il problema è l’impianto complessivo di un intervento per la giustizia che, in realtà, non c’è mai stato - racconta ancora -. Siamo in balia delle scelte più allucinanti. E affidare il nostro lavoro agli strumenti tecnologici è pressoché impossibile, perché non abbiamo spesso elementi di riscontro: l’oralità del processo è difficilmente superabile». Tutti personale, magistrati, avvocati - si trovano, dunque, sulla stessa barca per Montalto. Che ricorda gli uffici giudiziari drammaticamente sotto organico, così come le cancellerie, «e una politica che non ha alcuna contezza di quello che accade in tribunale, come si vede da certe scelte e certi provvedimenti assolutamente indicibili». In questo quadro, gli avvocati sono esposti a qualsiasi cosa. E prova ne è il tribunale di Catania, che in tempo di pandemia ha visto la vita degli operatori della giustizia a rischio, con la perdita di tante vite e una situazione strutturale assolutamente incompatibile con le esigenze di sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori. «Il carico del nostro lavoro è enorme e andavano date delle direttive nazionali che consentissero di espletare tutte le cose non rinviabili e far lavorare noi in condizioni civili - continua Montalto -. Sono stato tre ore della mia vita ad aspettare di avere notizie da un tribunale della Repubblica italiana. E non riesco a capacitarmene».

L’udienza si è conclusa con l’intervento di un avvocato d’ufficio presente in tribunale per garantire i diritti del detenuto. Che, però, non ha potuto usufruire di una difesa informata e consapevole delle questioni in gioco. «Nessuno mi ha contattato, nessuno mi ha chiamato ed io sono rimasto con la richiesta di discussione in attesa per non so quanto tempo continua -. Andava garantito il deposito cartaceo e la presenza in udienza, ovviamente garantendo la sicurezza di tutti i presenti, o andava rinviato tutto ciò che non era possibile espletare. La categoria degli avvocati è stata la più colpita, perché si è affermato che la difesa dell’imputato e la presenza dell’avvocato sono orpelli inutili, così come l’oralità del processo che insieme alla necessaria presenza delle parti nella formazione della prova sono i principi che rappresentano l’essenza più vera e profonda del processo penale».