C’è aria di una tetra “riforma”, per il processo tributario: la fine dell’oralità
Lo Statuto dei diritti del contribuente festeggia nel modo peggiore il proprio ventesimo compleanno: dopo i tanti tradimenti inflitti dal legislatore, la beffa delle liti fiscali ridotte, dal decreto Ristori, alla sola trattazione scritta
Vent’anni fa veniva approvato lo Statuto dei diritti del contribuente. Una legge ordinaria fortemente invasiva nel tradizionale rapporto Fisco-cittadini, in quanto introduceva principi generali che, per la prima volta e in maniera organica, disciplinavano i comportamenti delle due parti nel rispetto di valori quali la chiarezza degli atti, la buona fede e correttezza, l’irretroattività della legge tributaria.
Fatto è che il mancato rilievo costituzionale delle disposizioni, pur se valorizzate per la loro applicazione da parte della giurisprudenza, ne ha consentito una continua deroga da parte del legislatore, a discapito di quei principi.
Nel corso di un qualificato convegno organizzato da Uncat e dalle Camere tributarie della Sicilia su “Vent’anni dello Statuto e Riforma fiscale” si è discusso dell’attualità dello Statuto non disgiunta dalla opportunità di un suo restyling, che tenga conto della priorità del rafforzamento della compliance (anche attraverso, ad esempio, l’istituzione di tavoli regionali) e della valorizzazione di alcuni istituti privi di un’incidenza attiva nella gestione del rapporto d’imposta (ad esempio l’Ufficio del garante del contribuente).
Parimenti, per quello che sta più a cuore degli avvocati, merita l’attualità, sul piano generale della riforma fiscale, la giustizia tributaria, assurdamente estranea all’interesse del legislatore.
Il momento critico della pandemia ha reso più evidenti le intrinseche criticità del processo tributario. Sol che si pensi all’introduzione sin dal 2018 del processo da remoto e alla sua mancata attuazione ad oggi, con l’impraticabilità di questa modalità, suona come una beffa il Decreto Ristori (d. l. n. 137 del 28 ottobre 2020 pubblicato in Gazzetta lo stesso giorno), che ha stabilito questa modalità fino all’esaurimento della fase emergenziale da Covid.
Suona beffa, in quanto il legislatore sa benissimo che, nonostante sia gli uffici finanziari che gli studi professionali siano attrezzati, tuttavia ostano al suo utilizzo le non ancora complete strumentazioni tecniche all’interno degli uffici.
Sul piano tecnico si affidano assurdamente ai presidenti delle Commissioni tributarie (in funzione della celebrazione del processo da remoto) indagini sulle precondizioni esterne al processo (divieti, limiti e impossibilità della circolazione), che non si sa con quale grado di certezza o ufficialità si impongano al sindacato della loro scelta, ovvero sull’individuazione dei soggetti “a vario titolo interessati nel processo tributario” (una volta si definivano parti processuali).
La modalità del processo tributario, al di là dell’evidente incoerenza della narrazione letterale dell’art. 27 di questo decreto legge, è unica fino alla fine della pandemia: il processo scritto. Mentre fino a oggi era dato alla parte di optare per l’oralità, sia pur rinviando la discussione dei ricorsi nel tempo, dall’attuale decreto l’oralità scompare anche in via opzionale, così almeno stando all’interpretazione strettamente letterale.
Ma tanto avrebbe imposto una migliore disciplina che avesse modulato e scansionato le tempistiche degli adempimenti processuali, senza prevedere ex ante l’ipotesi di rinvio a nuovo ruolo per l’impossibilità di garantire il rispetto dei termini.
Ciò che preoccupa, al di là dell’emergenza di cui l’Avvocatura è consapevole e doverosamente rispettosa dei presidi eccezionali atti a combatterla, è l’ossigeno che si respira, un refolo che sembra indirizzarsi verso la fine dell’oralità. Ma, pur comprendendo fino in fondo le conquiste della tecnica, resto convinto che l’oralità stia al processo come la cornice al quadro.
*Presidente dell’Uncat – Unione nazionale delle Camere degli avvocati tributaristi
C’è aria di una tetra “riforma”, per il processo tributario: la fine dell’oralità
di Antonio Damascelli*
Vent’anni fa veniva approvato lo Statuto dei diritti del contribuente. Una legge ordinaria fortemente invasiva nel tradizionale rapporto Fisco-cittadini, in quanto introduceva principi generali che, per la prima volta e in maniera organica, disciplinavano i comportamenti delle due parti nel rispetto di valori quali la chiarezza degli atti, la buona fede e correttezza, l’irretroattività della legge tributaria.
Fatto è che il mancato rilievo costituzionale delle disposizioni, pur se valorizzate per la loro applicazione da parte della giurisprudenza, ne ha consentito una continua deroga da parte del legislatore, a discapito di quei principi.
Nel corso di un qualificato convegno organizzato da Uncat e dalle Camere tributarie della Sicilia su “Vent’anni dello Statuto e Riforma fiscale” si è discusso dell’attualità dello Statuto non disgiunta dalla opportunità di un suo restyling, che tenga conto della priorità del rafforzamento della compliance (anche attraverso, ad esempio, l’istituzione di tavoli regionali) e della valorizzazione di alcuni istituti privi di un’incidenza attiva nella gestione del rapporto d’imposta (ad esempio l’Ufficio del garante del contribuente).
Parimenti, per quello che sta più a cuore degli avvocati, merita l’attualità, sul piano generale della riforma fiscale, la giustizia tributaria, assurdamente estranea all’interesse del legislatore.
Il momento critico della pandemia ha reso più evidenti le intrinseche criticità del processo tributario. Sol che si pensi all’introduzione sin dal 2018 del processo da remoto e alla sua mancata attuazione ad oggi, con l’impraticabilità di questa modalità, suona come una beffa il Decreto Ristori (d. l. n. 137 del 28 ottobre 2020 pubblicato in Gazzetta lo stesso giorno), che ha stabilito questa modalità fino all’esaurimento della fase emergenziale da Covid.
Suona beffa, in quanto il legislatore sa benissimo che, nonostante sia gli uffici finanziari che gli studi professionali siano attrezzati, tuttavia ostano al suo utilizzo le non ancora complete strumentazioni tecniche all’interno degli uffici.
Sul piano tecnico si affidano assurdamente ai presidenti delle Commissioni tributarie (in funzione della celebrazione del processo da remoto) indagini sulle precondizioni esterne al processo (divieti, limiti e impossibilità della circolazione), che non si sa con quale grado di certezza o ufficialità si impongano al sindacato della loro scelta, ovvero sull’individuazione dei soggetti “a vario titolo interessati nel processo tributario” (una volta si definivano parti processuali).
La modalità del processo tributario, al di là dell’evidente incoerenza della narrazione letterale dell’art. 27 di questo decreto legge, è unica fino alla fine della pandemia: il processo scritto. Mentre fino a oggi era dato alla parte di optare per l’oralità, sia pur rinviando la discussione dei ricorsi nel tempo, dall’attuale decreto l’oralità scompare anche in via opzionale, così almeno stando all’interpretazione strettamente letterale.
Ma tanto avrebbe imposto una migliore disciplina che avesse modulato e scansionato le tempistiche degli adempimenti processuali, senza prevedere ex ante l’ipotesi di rinvio a nuovo ruolo per l’impossibilità di garantire il rispetto dei termini.
Ciò che preoccupa, al di là dell’emergenza di cui l’Avvocatura è consapevole e doverosamente rispettosa dei presidi eccezionali atti a combatterla, è l’ossigeno che si respira, un refolo che sembra indirizzarsi verso la fine dell’oralità. Ma, pur comprendendo fino in fondo le conquiste della tecnica, resto convinto che l’oralità stia al processo come la cornice al quadro.
*Presidente dell’Uncat – Unione nazionale delle Camere degli avvocati tributaristi
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