«Intanto il Consiglio superiore della magistratura mi pare già sovraccarico di nodi irrisolti, per pensare di complicarne l’esistenza anche con l’equivoco fra durata soggettiva del mandato e durata del mandato collegiale». Giovanni Maria Flick parla del caso del togato Csm prossimo al congedo e aggrotta la fronte. Non è colpito tanto dalle polemiche e dai retroscena, quanto dai controsensi connessi alla permanenza in carica dell’ex pm di Mani pulite. C’è il rischio di «confondere la durata quadriennale prevista dall’articolo 104, evidentemente riferita al suo limite massimo, con il mandato del singolo consigliere», nota il presidente emerito della Consulta, «il che equivarrebbe a sbilanciare la natura del Csm dalla funzione gestionale verso sembianze da organo costituzionale. Come se il Consiglio superiore si trovasse sullo stesso piano della Consulta: ma proprio il raffronto con la Consulta ci dimostra quanto sia improponibile l’ipotesi che un consigliere togato del Csm resti in carica come tale anche dopo che sia andato in quiescenza come magistrato».

Insomma, presidente Flick, lei ritiene che quando, il prossimo 20 ottobre, Davigo compirà 70 anni e si congederà dalla magistratura per raggiunto limite di età, dovrà concludersi anche il suo mandato a Palazzo dei Marescialli.

Sì, e mi sorprende che adesso ci si scervelli per asserire il contrario. In ultima analisi, tutto sta nel raffronto con la Corte costituzionale: in tal caso, è esplicitamente previsto all’articolo 135 che il mandato dei giudici è di nove anni “per ciascuno di essi”. Non si parla di durata della Corte, di un suo determinato collegio, ma della permanenza del singolo componente. Se per il Csm i costituenti avessero voluto, nella sostanza, riferire la durata quadriennale della carica non al Consiglio ma al singolo consigliere, indipendentemente dal presupposto della nomina, l’avrebbero scritto a chiare lettere esattamente come hanno fatto per la Corte costituzionale.

Perché finora un’osservazione così semplice non è stata avanzata?

Con tutto il rispetto per il diverso ragionamento fondato su un profilo solo formale e letterale, penso alla norma costituzionale che regola la rieleggibilità del presidente della Consulta. La carica ha una durata triennale. Poi può essere rinnovata per tre anni ancora. Ma a condizione che quel presidente della Corte si trovi, al momento della rielezione, ancora in carica come giudice costituzionale, ossia a condizione che non siano ancora trascorsi i nove anni di durata del mandato. Ancora: se trascorsi i primi tre anni si è rieletti al vertice della Consulta, si decade da presidente non appena scade il mandato di giudice, anche se il secondo triennio non è stato completato. Cosa vuol dire? Che la carica successiva, l’elezione a presidente, è sempre indissolubilmente subordinata alla condizione che ne è il presupposto: lo status di giudice costituzionale. Allo stesso modo, se il presupposto per essere eletti al Csm, nel caso dei componenti togati, è lo status di magistrato ordinario appartenente alle varie categorie e quindi, evidentemente, in servizio, quando tale specifico status viene meno, si interrompe anche il mandato a Palazzo dei Marescialli.

Di nuovo: perché non lo si è ancora detto?

Mi limito a osservare che si pretende di conferire stabilità all’organo di autogoverno dei magistrati attraverso la stabilità nella carica di un singolo consigliere. Strano. Ma per tentare di sezionare la stranezza in tutti i suoi aspetti, serve un breve excursus cronologico.

Cosa intende dire?

Il cosiddetto caso Palamara non è nuovo. Negli ultimi giorni gli osservatori più misurati e acuti hanno notato che non si è fatto praticamente nulla per oltre un anno, dopo aver denunziato a suo tempo con vigore l’urgenza di provvedere subito, e che d’improvviso si accelera. Adesso, anziché concentrarsi sulla riforma del Csm o almeno sulla vicenda oggetto del noto procedimento disciplinare, si è preoccupati della permanenza in carica di uno dei giudici di quel procedimento. Ci si trova dinanzi a un bivio: o quel giudice decade il giorno in cui entra in quiescenza, a processo ancora non concluso, e allora si rischia di dover rinnovare tutto dal principio; oppure si tenta la strada intrapresa, cioè dopo un anno di nulla assoluto si cerca di portare a termine il processo prima che quel giudice entri in quiescenza. Come si fa a non trovarlo strano?

Senta, presidente Flick: la necessità di arrivare alla sentenza Palamara con Davigo ancora giudice del collegio disciplinare può dipendere, secondo lei, dall’idea di estremo rigore che Davigo personifica e dal timore di rinunciarvi proprio in una vicenda ritenuta squalificante per la magistratura?

Ah, ma quindi adesso vorrebbe farmi parlare di politica? No, mi spiace. A me del fatto che quel procedimento sia considerato un simbolo, e che quel consigliere Csm sia a propria volta un simbolo di rigore, non può e non deve interessare. I principi di regolazione di un organo come il Csm devono prescindere dalla politica e dal sentimento dell’opinione pubblica. Ribadisco: la permanenza in Consiglio richiede necessariamente il presupposto della qualità di magistrato in servizio. Già ho ricordato come emerga con chiarezza dalla differenza tra la norma costituzionale sulla Consulta e quella sul Csm. Potrei fermarmi qui. Ma giacché ci siamo, consideriamo anche le conseguenze problematiche di una valutazione diversa. Prima di tutto: un magistrato in quiescenza che continuasse a essere consigliere superiore non sarebbe sottoposto alla responsabilità disciplinare, per non dire della responsabilità deontologica, deficitaria anche per le toghe in servizio. Potrebbe, un ex magistrato, essere sottoposto alla responsabilità disciplinare tipica di chi è in servizio solo perché è componente del Csm? No, servirebbe una legge.

Prima contraddizione. Le altre?

Passiamo a vedere cosa discenderebbe dalla pretesa di equiparare il Csm alla Corte costituzionale, e di intendere dunque la durata quadriennale dell’organo come durata soggettiva del singolo mandato di consigliere Csm in difetto della qualità che ne è il presupposto ineliminabile. Innanzitutto, si creerebbe una sfasatura, nel senso che alcuni componenti togati del Csm resterebbero consiglieri anche dopo che siano stati rinnovati i membri laici, con tutti i relativi problemi di sintonia fra le due componenti. Dovremmo, di fatto, avere elezioni lontane nel tempo, tra laici e togati e anche all’interno della componente magistratuale. Terzo, potremmo trovarci ad attribuire, all’organo, una durata di fatto ultraquadriennale legata alla circostanza soggettiva del mandato di un singolo, entrato in carica dopo gli altri. Mi pare tutto davvero problematico.

Intanto si attendono nuovi pareri dall’Avvocatura di Stato e dall’Ufficio studi del Csm.

A me sembra che nella vicenda vi sia una sorta di omaggio all’identificazione tra il profilo di un singolo componente e l’intero organo di autogoverno. Sarebbe auspicabile che una simile distorsione venisse abbandonata. E che si provasse a risolvere i problemi, che semplici non sono, della magistratura e del suo ordinamento, e della formazione e del funzionamento del Csm, prima di affrontarne dei nuovi.