Quando si arriva ad Istanbul dalla Grecia si osserva avvicinarsi un orizzonte trapuntato di azzurro e di oro ed è come se ci si sentisse a casa senza esserlo. Incrocio, crocevia, passaggio, coagulo: Istanbul è tante cose per chi ha occhi ed orecchie per ascoltare e guardare quanto di durevole esiste in questa grande avventura che chiamiamo dialogo fra le religioni, fra le culture, fra le arti. Giustiniano in fondo è la scintilla che incide su qualcosa che assomiglia ad un supporto materiale – la carta – il senso del primato della regola. Era il codice del diritto romano, la nostra comune radice.
Ebru Timtik in quella transizione ci ha vissuto, ci ha protestato, facendo del suo corpo il supporto materiale di una scrittura quotidiana che le è costata la vita, quella del primato a qualunque costo del diritto.
Una traiettoria individuale, certo molto nota, molto visibile nei media. Già l’associazione internazionale degli avvocati aveva invocato l’intervento delle Nazioni Unite per salvare lei e con lei gli avvocati che in Paesi attraversati come da una scossa tellurica e ripetuta che con puntuto accanimento si dirige a distruggere i pilastri dello stato di diritto dalla esperienza di depauperamento prima delle garanzie democratiche e poi dell’innalzamento in nome di qualche principio non universalizzabile ma comunque abbastanza generale da fare erigere leader autoritari di istituzioni che fanno del potere la razionalità e i limiti del diritto e non viceversa del diritto la ragione e i limiti del potere. La lettura della traiettoria del corpo di Ebru Timkit che si ostina a dire con ciò che di più di universale esiste, il corpo umano e la vita che in esso respira, l’essenza fondante del nostro essere insieme persone, ossia il vivere civile che si gestisce sulla base di regole che non giustificano ad alcuno la prevaricazione dell’altro, è un esercizio che dobbiamo necessariamente fare tutti. Non per erigere eroi, ma per avere occhi e orecchie sufficientemente attenti per discernere – perché è questa la facoltà chiave della dimensione sociale della legalità – quelle opzioni di comportamento che sono lesive della democrazia e dello Stato di diritto anche quando appaiono ben giustificate, ben descritte e quando ci appare che non vi sia altra possibilità – fra ciò che vale la pena fare perché garantisce una duratura vita civica da ciò che impone una compattezza artificiale nel nome di un ordine giustificato dalla definizione altrettanto artificiale di un noi e di un altro che, diciamolo, il 2020 ha di gran lunga messo in discussione. Esiste veramente un noi e un altro nella mappa stellare la cui metrica è quella della garanzia della vita e della incolumità fisica?
Ebru Timtik ci parla di molte cose insieme che spesso dimentichiamo perché ricordarcene significa che dovremmo farci carico di scelte a volte difficili. Una donna, un avvocato, una voce alzata a difesa dei diritti e soprattutto del diritto ad un giusto processo. Non ad una giusta verità ma ad una giusta ed equa metodologia, quella del contraddittorio, per gestire conflitti diversità dissidi anche quelli più forti. Non è mica facile la pratica quotidiana di questa metodologia. Chiedetelo ad avvocati e giudici che sono pervasi ogni giorno dalla vertigine etica di porsi, di prendere posizione, sia nella difesa sia nel giudizio. Si tratta di una metodologia che richiede moltissima autonomia ed equilibrio – che sono poi la stessa cosa solo guardata da due prospettive diverse, l’una etico/ cognitiva, l’altra pratica e comportamentale – e che si acquista avendo ben presente che ci sono solo pochi luoghi sacri nel mondo materiale come nel mondo istituzionale dove si incontrano e stanno in equilibrio diversi punti di vista, diversi valori, diverse visioni di cosa è giusto, e questi sono nel mondo sociale tutelati dal primato del diritto. No, non è proprio il caso di passare a latere della traiettoria di Ebru Timkit, perché la sua storia di avvocato che ha speso la sua breve vita ed ha esaurito la sua forza fisica nello sciopero della fame ha in sé una storia che travalica i confini. La libertà processuale di uno è quella di tutti. Attaccate quella di una persona e metterete in pericolo quella di ciascuno.
Per questo dovremmo ricordarcelo quell’avvicinarsi a Istanbul dalla Grecia. Forse sarà un caso, una ventura non voluta della storia, ma lì sta la radice della nostra responsabilità per la tutela delle libertà, soprattutto laddove l’equilibrio fra lo stato di diritto e lo stato attraverso il diritto diventa labile, debole, e sono le sedi più nascoste, sono le situazioni più insospettate, quelle nelle quali come quando si naviga in mare aperto si svolta un attimo e si apre una insenatura che non ti attendevi e se non si hanno bene chiare le coordinate stellari ci si perde. A perderci pero’ siamo tutti e tutte, non solo chi vive in quello specifico luogo. Per questo la storia di Ebru Timkit parla di tutti e ognuno di noi.
Il sacrificio di Ebru Timtik ci ricorda che il diritto deve sempre prevalere sulla forza bruta del potere
Quando si arriva ad Istanbul dalla Grecia si osserva avvicinarsi un orizzonte trapuntato di azzurro e di oro ed è come se ci si sentisse a casa senza esserlo. Incrocio, crocevia, passaggio, coagulo: Istanbul è tante cose per chi ha occhi ed orecchie per ascoltare e guardare quanto di durevole esiste in questa grande avventura che chiamiamo dialogo fra le religioni, fra le culture, fra le arti. Giustiniano in fondo è la scintilla che incide su qualcosa che assomiglia ad un supporto materiale – la carta – il senso del primato della regola. Era il codice del diritto romano, la nostra comune radice.
Ebru Timtik in quella transizione ci ha vissuto, ci ha protestato, facendo del suo corpo il supporto materiale di una scrittura quotidiana che le è costata la vita, quella del primato a qualunque costo del diritto.
Una traiettoria individuale, certo molto nota, molto visibile nei media. Già l’associazione internazionale degli avvocati aveva invocato l’intervento delle Nazioni Unite per salvare lei e con lei gli avvocati che in Paesi attraversati come da una scossa tellurica e ripetuta che con puntuto accanimento si dirige a distruggere i pilastri dello stato di diritto dalla esperienza di depauperamento prima delle garanzie democratiche e poi dell’innalzamento in nome di qualche principio non universalizzabile ma comunque abbastanza generale da fare erigere leader autoritari di istituzioni che fanno del potere la razionalità e i limiti del diritto e non viceversa del diritto la ragione e i limiti del potere. La lettura della traiettoria del corpo di Ebru Timkit che si ostina a dire con ciò che di più di universale esiste, il corpo umano e la vita che in esso respira, l’essenza fondante del nostro essere insieme persone, ossia il vivere civile che si gestisce sulla base di regole che non giustificano ad alcuno la prevaricazione dell’altro, è un esercizio che dobbiamo necessariamente fare tutti. Non per erigere eroi, ma per avere occhi e orecchie sufficientemente attenti per discernere – perché è questa la facoltà chiave della dimensione sociale della legalità – quelle opzioni di comportamento che sono lesive della democrazia e dello Stato di diritto anche quando appaiono ben giustificate, ben descritte e quando ci appare che non vi sia altra possibilità – fra ciò che vale la pena fare perché garantisce una duratura vita civica da ciò che impone una compattezza artificiale nel nome di un ordine giustificato dalla definizione altrettanto artificiale di un noi e di un altro che, diciamolo, il 2020 ha di gran lunga messo in discussione. Esiste veramente un noi e un altro nella mappa stellare la cui metrica è quella della garanzia della vita e della incolumità fisica?
Ebru Timtik ci parla di molte cose insieme che spesso dimentichiamo perché ricordarcene significa che dovremmo farci carico di scelte a volte difficili. Una donna, un avvocato, una voce alzata a difesa dei diritti e soprattutto del diritto ad un giusto processo. Non ad una giusta verità ma ad una giusta ed equa metodologia, quella del contraddittorio, per gestire conflitti diversità dissidi anche quelli più forti. Non è mica facile la pratica quotidiana di questa metodologia. Chiedetelo ad avvocati e giudici che sono pervasi ogni giorno dalla vertigine etica di porsi, di prendere posizione, sia nella difesa sia nel giudizio. Si tratta di una metodologia che richiede moltissima autonomia ed equilibrio – che sono poi la stessa cosa solo guardata da due prospettive diverse, l’una etico/ cognitiva, l’altra pratica e comportamentale – e che si acquista avendo ben presente che ci sono solo pochi luoghi sacri nel mondo materiale come nel mondo istituzionale dove si incontrano e stanno in equilibrio diversi punti di vista, diversi valori, diverse visioni di cosa è giusto, e questi sono nel mondo sociale tutelati dal primato del diritto. No, non è proprio il caso di passare a latere della traiettoria di Ebru Timkit, perché la sua storia di avvocato che ha speso la sua breve vita ed ha esaurito la sua forza fisica nello sciopero della fame ha in sé una storia che travalica i confini. La libertà processuale di uno è quella di tutti. Attaccate quella di una persona e metterete in pericolo quella di ciascuno.
Per questo dovremmo ricordarcelo quell’avvicinarsi a Istanbul dalla Grecia. Forse sarà un caso, una ventura non voluta della storia, ma lì sta la radice della nostra responsabilità per la tutela delle libertà, soprattutto laddove l’equilibrio fra lo stato di diritto e lo stato attraverso il diritto diventa labile, debole, e sono le sedi più nascoste, sono le situazioni più insospettate, quelle nelle quali come quando si naviga in mare aperto si svolta un attimo e si apre una insenatura che non ti attendevi e se non si hanno bene chiare le coordinate stellari ci si perde. A perderci pero’ siamo tutti e tutte, non solo chi vive in quello specifico luogo. Per questo la storia di Ebru Timkit parla di tutti e ognuno di noi.
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