Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e 6 dei suoi ministri ( Bonafede, Di Maio, Guerini, Lamorgese e Speranza) sono stati oggetto di numerosi esposti – più di duecento – da parte di cittadini italiani, in relazione alla gestione della emergenza sanitaria dovuta al covid 19.

In particolare, la responsabilità degli uomini di governo è stata chiamata in causa in relazione a numerosi articoli del codice penale, quali l’articolo 110 sul concorso, l’articolo 438 sula provocata epidemia, senza scordare i delitti colposi contro la salute pubblica, l’omicidio colposo, l’abuso di ufficio e gli attentati contro i diritti politici del cittadino.

In sintesi, due filoni di accuse volte a sanzionare, da un lato, le asserite mancanze nella gestione dell’emergenza e, dall’altro, i provvedimenti restrittivi del cosiddetto lockdown.

Sul banco degli imputati, però, questa volta - almeno in questo scritto- verranno a trovarsi alcuni principi, che andrebbero profondamente rivisti.

Il noto principio della obbligatorietà dell’azione penale, consacrata nell’articolo 112 della Costituzione, è uno dei cardini del sistema giudiziario nostrano, assurto al ruolo di vero e proprio totem nella difesa dell’indipendenza della magistratura.

A ben vedere, esso si fonda su un ragionamento piuttosto semplice: la rigida obbligatorietà dell’azione penale è un presidio di tutela del – sempre invocato ma spesso svuotato di significato – principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Se l’azione penale non fosse obbligatoria, bensì discrezionale, le scelte dei magistrati dovrebbero essere responsabilizzate ma, così operando, si legherebbe necessariamente l’operato dei giudici inquirenti al potere politico, minandone dunque l’indipendenza.

Teoricamente, nessun problema sorgerebbe con quanto appena affermato, ma è sotto gli occhi di tutti che qualcosa nella macchina della giustizia si è inceppato. E non ora.

Si prenda la lentezza del sistema giustizia: anni per ottenere la fissazione di udienze. Tribunali e magistrati soverchiati da montagne di cause, molte delle quali perfettamente evitabili, infondate e claudicanti avanti alla sostenibilità dell’accusa in giudizio. Ed è qui che ciò che esce dalla porta, rientra dalla finestra. L’ufficio della Procura che si è occupato dell’avviso di garanzia a carico del premier Conte e dei ministri succitati ha allegato una nota di accompagnamento, qualificando le notizie di reato come infondate e, dunque, di futura certa archiviazione. In altre parole, una formalità.

Ciò premesso, sorge spontaneo interrogarsi circa la reale opportunità di siffatto meccanismo che, senza voler peccare di superficialità, spende del tempo e delle energie preziose nel perseguire – almeno nella fase inziale – condotte di lapalissiana irrilevanza penale.

L’obbligatorietà dell’azione penale non è mai di fatto esistita. L’entità delle finanze pubbliche necessita delle scelte, in termini di quantità e qualità del servizio. Basta aggirarsi nei palazzi di giustizia, dove montagne di faldoni – inutili – giacciono abbandonati in attesa che qualcuno trovi il tempo per incanalarli verso il binario a cui sono destinati ab origine. Al massimo, l’obbligatorietà dell’azione penale può essere considerata un fine ideale a cui tendere. Ma è la scelta giusta anche qualora la notizia di reato sia completamente infondata, sfociando - quasi de plano - in una richiesta di archiviazione?

In tal senso si segnala come la riforma proposta dal ministro Bonafede, passando per una rivisitazione dell’istituto della archiviazione, nonché di una forte depenalizzazione di molte fattispecie di reato e un potenziamento dei riti alternativi, mirerebbe a introdurre una sorta di temperamento della obbligatorietà dell’azionale penale. Molti Paesi hanno, infatti optato per una discrezionalità, più o meno piena, della risposta penale. Ma non può essere diversamente: il motore giudiziario penale va rivisto, tutto, snellito e indirizzato verso la prevenzione dal reato.

Il secondo snodo problematico è rappresentato dall’opportunità che gli organi giudiziari si pronuncino sulla responsabilità di esponenti del governo nella gestione di una situazione tanto tragica, quanto nuova, nonché delicata, come quella della pandemia che, come noto, è stata globale. Non è infatti scontato ricordare che centinaia di migliaia di persone sono morte – e tutt’oggi muoiono – a causa di un nemico invisibile che nessuno è stato in grado di contenere efficacemente, quantomeno durante i picchi superiori delle curve dei contagi.

Le risposte della politica possono essere, a parere di chi scrive, paragonate a quella immagine tanto familiare a tutti noi, luna coperta che, tirata da un lato, lascia scoperta un’altra parte del corpo. Provvedimenti restrittivi della ‘ libertà personale’ senza dubbio hanno affondato l’economia: ma cosa fare? Quale soluzione? È forse credibile ritenere che un giudizio penale possa far trovare soddisfazione? Mantenimento inalterato della capacità produttiva in cambio del rischio di ulteriori contagi? Bisogna cercare un contemperamento delle esigenze, come correttamente ha svolto il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, che ha impiegato forze e risorse per gestire militari in ausilio alle già robuste risorse di polizia cittadine e locali.

Muovere un addebito, ora, è da primi della classe e non serve a nulla. Semmai occorre imparare e conservare le esperienze maturate per far meglio.

* Avvocato, direttore Ispeg - Istituto per gli studi politici, economici e giuridici