Dell’inchiesta della Procura nazionale antimafia, coperta dal segreto istruttorio, non c’è nulla che non sia stato già detto. Il capo Federico Cafiero De Raho, d’altronde, già ha anticipato che si sarebbero occupati delle rivolte carcerarie per capire se ci sia stata o meno una regia mafiosa. L’inchiesta è in corso, quindi si attende la conclusione. Di sicuro, almeno da quello che è stato riportato, i reclusi appartenenti a Cosa nostra non hanno partecipato o tantomeno fomentato le rivolte carcerarie. Come già riportato da Il Dubbio ( 7 luglio 2020 a pagina 12) le carceri più grandi, come quella napoletana di Poggioreale, ha visto coinvolti numerosi detenuti, anche se in realtà l’unico padiglione- denominato Avellino - esente dalle rivolte è stato quello dove sono reclusi i camorristi. Sicuramente al carcere di Santa Maria Capua Vetere hanno partecipato anche quelli dell’alta sicurezza.

Che i camorristi, in generale, abbiano partecipato alle rivolte non dovrebbe però sorprendere. Fin dagli anni 80, hanno fomentato le rivolte per ottenere benefici e avere il controllo del carcere. Ad esempio a Poggioreale, negli anni 80, periodo che vide la nascita della Nuova camorra organizzata, fondata da Raffaele Cutolo, si verificavano scontri tra faide, avevano le armi, compresi i detenuti che non erano affiliati ma che si dovevano proteggere. All'epoca in quel carcere entrava di tutto, armi, droga, denaro. Fu lì che per riprendere il controllo del penitenziario degli agenti specializzati – antesignani dei Gom – fecero irruzione e usarono metodi violenti, anche nei confronti di detenuti comuni, commettendo delle vere e proprie torture. Utilizzarono la famosa “cella zero”, quella denunciata dall’allora detenuto Pietro Ioia e ora garante dei detenuti di Napoli.

Le rivolte carcerarie del 7 marzo

Ma ritorniamo alle rivolte carcerarie avvenute tra il 7 e il’ 11 marzo scorso, oggetto dell’inchiesta da parte della Procura nazionale antimafia. Non emerge, per ora, una strategia comune della criminalità organizzata fatta a tavolino coordinando i 49 istituti penitenziari del territorio nazionale protagonisti delle violente rivolte. Non si chiarisce come sia stato possibile che i detenuti comuni, tra i quali gli extracomunitari, si siano immolati per la causa mafiosa arrivando, in alcuni casi ( ben 14), fino alla morte. Tutti coloro che hanno partecipato alle rivolte sono stati esclusi dal decreto “cura Italia”, la parte relativa alla possibilità di scontare la pena a casa se rimanevano meno di 18 mesi di carcere. Non solo. Oltre all’esclusione, rischiano di finire sotto indagine tutti i rivoltosi e quindi si ritroveranno con altri anni da scontare in carcere. Per avere il quadro completo, bisogna sottolineare che hanno partecipato 10 mila detenuti su una popolazione carceraria che era oltre i 50 mila reclusi. Infatti, nella maggioranza delle carceri ci sono state proteste pacifiche, semplici battiture o sciopero della fame. In altre, invece, non è accaduto nulla, soprattutto quelle carceri – rare – dove l’attività trattamentale funziona e c’è un dialogo tra la direzione e i detenuti stessi.

Infatti, come riporta un’analista sentito da Repubblica, non è un caso che «le rivolte più violente siano avvenute – come ripetono le associazioni che si occupano dei detenuti – negli istituti più sovraffollati, dove sono rinchiusi anche mafiosi pugliesi e camorristi». Quindi, non si fa altro che dire ciò che su Il Dubbio è stato detto già dai primi giorni successivi alle rivolte. Mentre gli altri appartenenti alla criminalità organizzata storicamente hanno sempre partecipato alle rivolte, per la mafia siciliana è diverso. E ciò smentisce chi ha evocato la trattativa Stato- mafia, quasi per dire che le rivolte carcerarie sono servite per ottenere la scarcerazione dei boss mafiosi del periodo delle stragi, senza aver alcun rispetto dei giudici che hanno concesso la detenzione domiciliare in tutta autonomia e dove, tra l’altro, nessun boss stragista è stato scarcerato. Mai, nella storia, i mafiosi hanno partecipato alle rivolte, anzi le hanno da sempre ostacolate. Sono maggiormente rispettosi delle regole penitenziarie rispetto ai detenuti “comuni” e apprezzano l’ordine e la disciplina anche se ciò comporta per loro alcune privazioni che sul momento possono contestare. Il detenuto mafioso “accetta” l’istituzione carceraria in quanto è portatore di un suo sistema di regole, non la contesta drasticamente come fanno i detenuti comuni o quelli politici tipo gli anarchici. L’accettazione del carcere da parte del detenuto mafioso deriva anche dalla sua consapevolezza di dover trascorrere un lungo periodo di tempo di reclusione e, pertanto, ha generalmente interesse a una apparente tranquillità, perché sa che disordini o atti di indisciplina che turbano la vita del carcere provocano maggiori controlli e comportano l’adozione di provvedimenti quali trasferimenti e l’introduzione di nuovi decreti legge che rendono più difficile la concessione dei benefici per loro. Quello, che in fondo, è accaduto.