Coimputati dello stesso reato: uno assolto e l’altro condannato. Sono gli “effetti” collaterali del patteggiamento, ' l’applicazione della pena su richiesta delle parti' come recita il codice di procedura penale, di fatto una condanna a scatola chiusa di cui poi ci si pente senza, però, la possibilità di tornare indietro. Questi i fatti. O. E. è un sindacalista milanese. Coinvolto in una maxi indagine su infiltrazioni mafiose, condotta dalla Dda del capoluogo lombardo, negli appalti per i servizi di facility, decide di patteggiare nel 2018 una pena a tre anni e tre mesi di reclusione per i reati di associazione a delinquere e traffico di influenze illecite.

Provato da diversi mesi di carcerazione preventiva in regime di isolamento, O. E. pensa che il patteggiamento sia il male minore per uscire dal gorgo giudiziario in cui è precipitato. Una scelta, quella di O. E., comune a molti nella sua posizione: davanti alla prospettiva di rimanere anni con la spada di Damocle di un carico pendente, il patteggiamento sembra essere la via d’uscita apparentemente più indolore. Presentata istanza di patteggiamento, si spalancano le porte del carcere. I coimputati di O. E., invece, sono di diverso avviso e decidono per il rito ordinario, affrontando il processo in custodia cautelare. Al termine del dibattimento, la sorpresa: il collegio li assolve da questa imputazione per “insussistenza del fatto”.

La difesa di O. E., lette le motivazione dell’assoluzione, dato che la vicenda in cui erano coinvolti era identica, decide allora di presentare istanza di revisione della sentenza di patteggiamento a tre anni e tre mesi, nel frattempo già scontati fra detenzione domiciliare ed affidamento ai servizi sociali. La decisione dei legali di O. E si fonda su una accurata ricostruzione dei fatti oggetto del giudizio dove “erano stati trovati mancanti di un uno degli elementi costitutivi del reato”. “Sussiste un conflitto di giudicati basato sull’incompatibilità dei fatti storici su cui si fondano le sentenze”, proseguono i difensori del sindacalista milanese. Gli avvocati, ricostruito il fatto storico, chiedevano allora di assolvere l’imputato da tutte le imputazioni per insussistenza del fatto.

La doccia fredda della Corte d’Appello di Brescia, competente per la revisione delle sentenze di condanna emesse dai colleghi di Milano. è arrivata la scorsa settimana: l'istanza è stata dichiarata inammissibile. Tutto in punto di diritto è il ragionamento dei giudici bresciani.“ La giurisprudenza prevalente con riferimento al contrasto di giudicati che coinvolgono una sentenza di applicazione pena, esclude che la semplice assoluzione del coimputato che abbia optato per un rito diverso valga a configurare contrasto di giudicati”, esordiscono i togati.“Diverso – aggiungono – è il criterio di valutazione proprio dei due riti di per se tale da condurre fisiologicamente ad esiti opposti”.

Ma non solo. “La revisione cesserebbe di essere un mezzo di impugnazione straordinario e diventerebbe strumento a disposizione del patteggiante per revocare in dubbio una decisione da lui stessa richiesta e riaprire integralmente la fase dell’accertamento dei fatti e della responsabilità”. Non nuove prove, come sarebbe necessario per la revisione della sentenza, allora, “ma semplice valutazione in termini di insufficiente probatorio degli elementi d’accusa già presenti”. In conclusione, si può essere dichiarati colpevoli di un reato che non si è mai commesso. E per questo reato mai commesso si possono anche scontare anni di reclusione.

E non finisce qui. Infatti, oltre alla beffa scatta anche il danno. E già, perchè i giudici bresciani, oltre a dichiarare inammissibile l’istanza di revisione delle sentenza da parte di O. E., lo hanno anche condannato al pagamento di mille euro di spese. La difesa di O. E. ha già annunciato che presenterà ricorso in Cassazione. Con la speranza, però, di un esito più favorevole.