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Il venerdì a Nisida è il giorno del barbiere. Quando arriviamo nel carcere minorile napoletano i ragazzi del laboratorio pizzeria hanno appena mollato impasto e farina sul bancone per andare tagliarsi i capelli. Averli sempre in ordine è la seconda cosa per loro più importante, la prima è rassettare e tenere pulita la cella nei reparti.  L’odore forte del detersivo è più ingombrante dei due letti e il comodino che compongono la stanza.

Una mandata, due mandate: la grossa chiave dorata che apre la porta blindata allarga la vista che dallo spioncino per la “conta” si ripete sempre uguale lungo tutto il corridoio. Da dentro, tra le sbarre in ferro della grossa finestra accanto al bagno, si vede il mare: «uno spettacolo, ma anche la più grande sofferenza», confessa uno dei ragazzi che incontriamo.

Nisida è l’isola dei gabbiani e della reclusione. Un paesaggio irripetibile sottratto alla natura per accogliere la cosiddetta “devianza giovanile” tra le mura della vecchia prigione borbonica dove si racconta che Bruto avesse ordito la congiura contro Cesare. Dopo l’emergenza sanitaria da Covid 19, il numero di detenuti si è ridotto a 28: quasi tutti “giovani adulti” tra i 18 e i 25 anni che non hanno avuto accesso a misure alternative, di loro solo quattro sono donne confinate nella sezione femminile. La struttura ne può accogliere fino a settanta, per una media di cinquanta: compresa la sezione della semilibertà, che ospita i ragazzi appena fuori dal cancello sorvegliato che delimita la zona di detenzione vera e propria.

«Qua si soffre bene o si soffre male: quando soffri male esci peggiore di quando sei entrato». Sono le parole di Salvatore, 21 anni, nato e cresciuto nel quartiere Santa Lucia di Napoli. Arrestato per la prima volta a 16 anni, ha già passato in carcere quasi quattro anni tra Airola e Nisida, il più grande tra gli Istituti minorili che ospita ragazzi da tutto il Sud Italia. Per lui la sofferenza «è stata buona», gli ha permesso di capire che «cos’è la vita». Della sua condanna gli restano da scontare altri tre anni e qualche mese, «forse meno», si augura. Dentro Nisida ha imparato a fare il pizzaiolo e sogna di aprire un locale tutto suo. «Solo chi sta in galera può capire certe cose, voi non potete neanche immaginare. In carcere non si sta bene, e chi dice che qua si sta bene, mente. La libertà non ha prezzo», comincia a raccontare. La distanza tra “noi e voi” nella sua voce è più pesante del sole rovente che ci picchia sulle spalle.

Quando è entrato in carcere Salvatore aveva solo la licenza media, una famiglia «perbene» alle spalle e troppe cattive conoscenze. «Abitare a Napoli è difficile spiega - perché il quartiere di appartenenza ti trascina a fare brutte cose. Ti trovi in situazioni in cui non ti devi trovare: ma a pagare le conseguenze siamo solo noi, sprecando gli anni migliori della nostra vita». Da un anno esce in permesso premio e quando accade ha l’unico desiderio di fumare una sigaretta da «uomo libero» e scegliere la pietanza da mangiare. «In galera non ci voglio tornare più - assicura. Prima vivevo alla giornata, adesso voglio solo lavorare e realizzarmi. Per me adesso un futuro migliore significa costruire una famiglia, tornare a casa la sera e starmene tranquillo».

«Qui mi sono civilizzato», dice elencando tutte quelle regole - «troppe» - che scandiscono le giornate tutte uguali nel penitenziario, tra un’attività trattamentale e una partita a calcio. Sulla copertina di un libro spiegazzato sul comodino leggiamo: “Voglia di libertà”, di Anne Saraga. Per Salvatore, da quando ha raggiunto il padiglione “premiale”, la cella è un poco meno stretta, il futuro un poco più a portata. Forse a Napoli, forse in Spagna, come lascia immaginare una cartolina di Ibiza incollata alla parete. «Io mi sento pronto per uscire, secondo me non ho più bisogno di stare qui. Adesso ho un progetto. Credo che la legge sia troppo severa: a un ragazzo che deve scontare dieci anni gli hai fatto capire la pena? L’hai solo ucciso. Per capire di aver sbagliato ci vuole tempo, ma quando ti senti pronto devi uscire». Secondo lui a salvarsi dopo il carcere su cinquanta detenuti sono a malapena due. Altri ragazzi che come lui scontano la pena a Nisida non hanno alcuna scelta. Senza una famiglia alle spalle, ad attenderli fuori è soltanto la criminalità: «dopo un percorso in istituto devi avere una possibilità, altrimenti ti perdi un’altra volta. Lì fuori non c’è più nessuno ad aiutarli».

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