Emilio Giannelli, il vignettista del Corriere della Sera, ci ha scherzato sopra - beato lui- immaginando il presidente del Consiglio Giuseppe Conte impensierito, anziché esultante, per tutta quella quantità di denaro che come un MESSIA - ma con la MES separata da SIA- il segretario del Pd Nicola Zingaretti gli cala giù dal Meccanismo di Stabilità Europea, o “fondo salva- Stati”. Dove sono disponibili dai 36 ai 37 miliardi di euro per le necessità italiane di potenziare il sistema sanitario, con ammessi e connessi, messo a dura prova dalla pandemia virale.

Tutti quei soldi, per quanto a buon mercato, con un risparmio d’interessi che il Ministro dell’Economia ha calcolato attorno ai 5 miliardi di euro in una decina d’anni, sono per Conte come la mela di Adamo ed Eva prima della cacciata dal Paradiso terrestre.

Lasciarsene tentare significherebbe per il presidente del Consiglio rompere con i grillini. Che, al pari dell’ex alleato leghista Matteo Salvini e della mancata alleata di destra Giorgia Meloni, considerano quel denaro come lo sterco del diavolo. E caccerebbero Conte da Palazzo Chigi, anche se a proteggerlo sul portone si mettesse il loro “garante”, “elevato” e quant’altro in persona.

Sembra incredibile, dopo tutta la riscrittura della storia di Conte fatta nell’ultimo anno: chi invitandolo alle feste dei veterani della Dc, chi paragonandolo, con la barba e l’autorità di Eugenio Scalfari, un po’ ad Aldo Moro, un po’ al liberalsocialista Carlo Rosselli e un pò persino al conte, al minuscolo, Camillo Benso di Cavour. Ma questa è la situazione in cui si trova in questa torrida estate il presidente del Consiglio.

Qualche retroscenista si è avventurato, non so francamente se a torto o a ragione, a descrivere la sorpresa e persino l’incredulità di Conte di fronte alla impazienza crescente di Zingaretti. Che pure lo aveva promosso a campione, o quasi, dell’area dei “progressisti” italiani, pur dopo averlo subito nella conferma a Palazzo Chigi, passando da una maggioranza all’altra, per il rifiuto energicamente opposto dai grillini alla richiesta di «discontinuità». Lungi da me l’idea, e tanto meno l’ambizione,di sostituirmi a qualche consigliere o informatore. Ma qualcuno dovrebbe pur decidersi a spiegare al presidente del Consiglio che il Pd è un partito complesso, nato dalla fusione o dall’amalgama  pur mal riuscito di dalemiana memoria dei due maggiori partiti della cosiddetta prima Repubblica, uno più complesso dell’altro: la Dc e il Pci. Che erano considerate un po’ delle Chiese, alternative e al tempo stesso complementari, grazie ai cui scontri, confronti, convergenze studiate o occasionali, è nata e cresciuta a lungo la nostra Repubblica.

Della complessità del Pd fu affascinato ad un certo punto persino Beppe Grillo, che nell’estate del 2009, in ferie in Sardegna, pensò addirittura di iscriversi e di scalarne il vertice per troppo poco tempo rimasto nelle mani di Walter Veltroni e del suo vice Dario Franceschini.

Fu proprio dopo il rifiuto di Franceschini di farlo salire a bordo del Pd, agitandone troppo la crociera, che Grillo si mise in proprio esordendo in una piazza di Bologna con invettive e parolacce come fondamenta del suo movimento Zingaretti sarà pure - come dicono ingiustamente i suoi detrattori, fuori e dentro il partito lasciatogli in eredità indiretta da Matteo Renzi- il fratello meno fortunato del commissario Montalbano, ma non è per niente un politico sprovveduto.

Egli ha avuto una sua storia, scalando la politica da funzionario di quello che era il Pci, e dimostrando anche un certo coraggio, volendocene ad assumere la guida di un partito uscito con le ossa rotte dalle elezioni del 2008. Come ce ne volle l’anno scorso, a crisi ormai aperta da un Salvini convinto di uscire coi “pieni poteri” del vincitore da elezioni anticipate sull’onda di quella europee di fine maggio, a seguire quella primissima “mossa da cavallo” di Renzi - prima di cambiare scacchiera - di allearsi con gli odiati grillini.

E’ proprio la crisi interna del movimento di Grillo, che vede la realtà italiana, europea e mondiale con i suoi particolarissimi occhiali, ad obbligare Zingaretti a puntare mani e piedi per evitare che a pagarne gli effetti peggiori siano proprio lui e il suo partito. Che, non potendo contare sui grillini neppure per salvare le regioni che ancora guida, e nelle quali si voterà il 20 settembre, non può più permettersi un attimo di distrazione o di debolezza.

Il Pd non è materialmente in grado, per la sua natura e per la storia che ha alle spalle, di rimanere senza i cosiddetti territori, che costituiscono una entità praticamente sconosciuta ai grillini. Ed è proprio ai territori, guarda caso, per le competenze regionali della sanità scritte nella Costituzione e consolidate nell’esperienza, che quei miliardi del Mes servono.

Servono - mi direte - anche ai territori - e che territori - amministrati dalla Lega guidata dal Salvini contrario al Mes. Ma anche per questo, guarda caso, Salvini non ha più la forza di prima, fuori e persino dentro il suo partito. E volete che Zingaretti sia tanto sprovveduto da non essersene accorto, come uno zingaretto qualsiasi della politica? E, per favore, non datemi adesso del razzista. Qui gli unici o i più sprovveduti, credete a me, ripiegati su stessi, come il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha detto recentemente dei magistrati dopo la vicenda Palamara, sono proprio i grillini. E quanti ne temono persino gli starnuti dando per scontato quello che in politica non è mai stato tale: l’impossibilità dello scioglimento anticipato delle Camere.

Non parliamo poi delle complicazioni che potrebbero derivare al Pd e all’Italia nei rapporti con l’Unione Europea da una evoluzione contraria a quella che nella scorsa estate consentì proprio ai grillini di restare al governo e a Palazzo Chigi, accettando a scatola chiusa la designazione di Paolo Gentiloni al posto di commissario economico a Bruxelles.