Diciamolo: per almeno due decenni, prima che l’ombra lunga del XX secolo si sfilasse alle nostre spalle, abbiamo creduto, anzi voluto credere, che la tecnologia, soprattutto la tecnologia digitale, la famosa ‘ e’ davanti a government, health,

avrebbe portato finalmente una trasparenza, una razionalità verso gli obiettivi, una efficacia e una efficienza gestionale da benvedersi in ogni contesto: contro il male della macchina burocratica, la macchina digitale è apparsa come “la” soluzione.

Dinnanzi all’idea che il software possa strutturare processi di lavorazione di pratiche, fascicoli, procedure, dossier, abbiamo, dapprima, la promessa di neutralità, che abbiamo fatto sovente coincidere con la trasparenza e quindi con la qualità. Poi abbiamo assunto una postura critica, additando il rischio di tecno- crazia, il potere della tecne, della conoscenza dell’uso dello strumento; poi abbiamo deplorato il rischio di ridurre il governare alla decisione tecnica, lontana dalla decisione democratica. La dialettica democrazia versus tecnocrazia

non è nuova nel mondo delle istituzioni. Nella tecnologia vi è un intrinseca dimensione di potere: provate a inserire dati in una piattaforma senza conformarvi alla struttura dei menu a tendina e scoprirete che non ‘ potete’ fare altro che seguire il “soft power” della piattaforma.

E improvvisamente... il covid- 19. Il digitale, e in particolare l’operare funzionale in remoto su supporti digitali che si applicano a oggetti trasformati in rappresentazioni digitali, è stato prima shock, poi risposta adattiva, poi scoperta di un potenziale di miglioramento, poi “arena” in cui irrompe la polarizzazione. Si è pro o contro la remotizzazione, pro o contro lo smart working.

“Pro o contro” di solito non si dice di una posizione presa dinnanzi a uno strumento: al limite si pensa che uno strumento funzioni oppure no. Polarizzarsi significa fare un salto di paradigma. Il dibattito sulla tecnologia è diventato acuto, teso, da una parte all’altra si situano sostenitori e osteggiatori. Il campo della tecnologia, dall’essere neutro – o cosi voluto –, è diventato una questione che divide, che polarizza. La contrazione del tempo nel dibattito politico non aiuta. Sul tema del digitale nel settore giustizia i dati si stanno raccogliendo, si potrebbero continuare a raccogliere, con uno sforzo di ancoraggio delle decisioni al fattuale, all’empirico, alla prova dei fatti. Nel bene e nel male molte cose sono state testate sul piano organizzativo e telematico.

Continuando ad alzare i toni della polemica sugli strumenti tecnologici ci si dedica troppo poco a ciò che è materia di politica istituzionale: le garanzie, i valori e la tensione quotidiana verso il miglioramento del sistema.

Anche nel mondo della giustizia dove la polarizzazione è aumentata rapidamente, si dovrebbe discutere di temi trasversali che uniscono o che potrebbero unire. Il primo: il tema della tutela delle libertà nel e con il digitale, il tema delle garanzie nella Costituzione per bilanciare – in qualsiasi ambiente si dirima una controversia – le parti nel rispetto di aspettative ben poste di diritti alla difesa e di un giudice imparziale; la risposta di giustizia alle fasce deboli della popolazione attraverso una combinazione di strumenti, fra cui anche il digitale; la valorizzazione professionale mettendo al centro l’organizzazione e, in questa, anche gli strumenti tecnologici.

Di un digitale diventato oggetto di polarizzazione non potremo più avvalerci nel momento in cui ci si chiederà di attuare il piano di progettualità della ripresa economica del Paese. Perché, se restiamo nella trappola del digitale come oggetto di contesa, ogni progetto, ogni azione che comporti una dimensione digitale e tecnologica, non farà che bloccarsi, perché invece che strumento essa sarà intesa come una arena conflittuale. Meglio allora che la tecnologia torni ad appartenere al dominio sereno, neutro, serafico della tecnocrazia? Assolutamente no.

È piuttosto il metodo del bilanciamento e del checks and balance, applicato anche al “soft power” del digitale che ci viene in aiuto. Il digitale è intriso di scelte di obiettivi, fissazione di trade off, priorità. Non può essere neutro. Deve essere trattato come un potere diffuso, parte delle regole con cui si regola il comportamento sociale e con cui viene regolato il micro operare della macchina pubblica. Abbiamo bisogno di creare uno spazio di ideazione critica dei dispositivi digitali che li pensi come si penserebbe a regole del gioco, a un tavolo costituente. Abbiamo bisogno di applicare al digitale la stessa visione lunga che avremmo per una Carta costituzionale. Se è cosi, allora abbiamo bisogno di depolarizzare e pluralizzare il pensiero sul digitale. È dal metodo che occorre cominciare, dal come fare per incardinare tutele e garanzie in qualsiasi forma di regolazione dei comportamenti. Ci aiuterà a fare perdurare il senso di appartenza a un sistema.