I due padri fondatori della matematica moderna sono due magistrati : Pierre Fermat e Gottfried Wilhelm Leibniz. Il fatto che due laureati in giurisprudenza, senza una formazione scientifica accademica abbiano inventato il calcolo delle probabilità e quello infinitesimale può essere spiegato a mio parere in tre modi : il primo è il richiamo al caso ( che in questa materia riveste un ruolo essenziale), il secondo è che alla loro epoca la scienza era in fase embrionale e non esistevano facoltà scientifiche al di fuori di medicina, il terzo è che esista un irresistibile tentazione dei giudici per la matematica.

Il segreto dei numeri è la loro serialità, la ripetitività esatta e schematica, che consente ai chi li domina di condensare moltissimi pensieri in poche cifre e di riprodurre uno stesso ragionamento per un numero infinito di volte, senza sbagliare .

La soluzione dei problemi dei giudici sta esattamente in questo : poter decidere molti e diversi casi, applicando sempre lo stesso principio collaudato senza temere errori o incorrere in parzialità. Il Giudice ama la prevedibilità : ha scelto a bella posta una carriera che gli assicura uno stipendio garantito perché teme le incognite, che sono un altro termine matematico. La matematica scioglie e risolve le incognite, le rende esplicite e calcolabili.

Nella mente di un giudice di ogni tempo è quindi ideale poter sapere in anticipo e con sicurezza che valore dare alle X o alle Y che la vita professionale pone loro ; il sogno è trasformare l’equità in una equazione.

Non credo quindi che sia casuale che la mente eccelsa di Fermat e Leibniz si sia dedicata alla matematica : non vi cercavano una ricreazione o una seconda vocazione.

Volevano solo fare al meglio il loro lavoro.

Leibniz gettò anche le basi dell’informatica, del linguaggio formalizzato e astratto, depurato da ogni possibile sottinteso ed equivoco.

Negli stessi anni si occupava di razionalizzare il diritto romano, all’epoca diritto vigente in Germania : voleva trovare un sistema rapido di reperimento delle fonti normative e organizzarle in maniera rigorosa. La matematica quindi come trasformazione della giustizia bendata in una idea esatta, chiara e distinta delle cose e delle loro leggi.

Esiste anche un corollario: la matematica elimina gli avvocati e la dialettica e impedisce ai giudici di perdere tempo e calma dietro alle loro verbose affermazioni.

Gli avvocati in genere ( o almeno nel mio caso) non amano la matematica.

E’ una opposizione del tutto logica: l’avvocato non patrocina un caso dall’esito previsto o prevedibile; infatti si ricorre a lui quando si capisce di non potercela fare da soli.. L’avvocato inoltre non è a contatto con diretto con la legge , ma con le persone. E le persone hanno ognuna le loro parole, i loro dolori e le loro speranze, che non entrano mai nei quadretti dei quaderni di aritmetica.

L’avvocato non porta mai al giudice un fatto e non lo orienta mai verso la verità.

Gli porta il disordine vitale delle relazioni umane, l’intreccio dei loro discorsi e soprattutto gli insinua il dubbio.

Un dubbio, si badi, non solo metodico, ma metafisico: la sensazione che la soluzione giusta a ogni singolo caso non esista, ma che di vero ci siano solo gli intrecci della vita.

Deve essere consolante allora, per chi può farlo, saltare dal mondo agitato dei fascicoli giudiziari alle stelle fisse dei numeri infiniti e trovare nella quadratura del cerchio la soluzione alle vicende quotidiane.

E’ come giocare felici in una palazzina armoniosa costruita in mezzo a un giardino ordinato, come quella che, al tempo di Leibniz e Fermat, costruì Valadier a Roma o come quelle che adornano Versailles e le Tuilleries. Ma anche lì arrivò la rivoluzione e non era quella degli astri.