di Enrico Sbriglia*

Per favore, non ripetiamo la marcescente espressione che “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”, rovinando ancora una volta il sonno di Voltaire, perché altrimenti dovremmo tutti incamminarci, senza indugio, verso le caverne più buie dell’umanità.

Sono trascorsi ormai 15 anni dalla Riforma della Dirigenza Penitenziaria del 2005 che imponeva una diversa ed organica architettura organizzativa dell’amministrazione penitenziaria e che invece è stata affossata dalla bramosia di quanti hanno governato il Dap; sono, però, nel frattempo passati circa 27 anni senza che venissero banditi, puntualmente, i necessari concorsi pubblici per poter assicurare il turn- over e la doverosa copertura degli incarichi di direttore e vice negli istituti penitenziari.

Solo qualche giorno fa, non potendo, evidentemente, fare più altrimenti, vista oramai la gravissima, e probabilmente irreversibile, situazione delle carceri italiane, è stato pubblicato un misero bando per 45 posti di dirigente penitenziario: numero assolutamente insufficiente per assicurare, dignitosamente, un servizio pubblico essenziale che tocca da vicino gli aspetti più delicati di un cittadino allorquando, a prescindere dalle sue eventuali responsabilità, viene privato della libertà.

Attualmente i direttori superstiti presenti, quelli che eufemisticamente, vengono indicati come i “più giovani”, sono di epoche precedenti, con alcuni nel 1997, e poi di corsa, indietro nel tempo, per arrivare agli anni ’ 80.

Però, sentite, è solo di qualche settimana fa il riconoscimento ai dirigenti penitenziari di diritto pubblico ( così si chiama il loro rapporto di lavoro alle dipendenze dello Stato) di un contributo economico per i loro figlioli che frequentino gli “asili nido”: provvedimento questo che appartiene alla saga del ridicolo, perché, per ragioni anagrafiche, è inverosimile che vi siano ancora dirigenti di mezza età con prole fruente le predette strutture; insomma l’apoteosi del nulla, una concessione che risulta quasi come una sorta di sfottò.

Ma come se non bastasse, si aggiunge un’altra amenità del “non diritto” del lavoro: ai Direttori delle nostre carceri sarà addirittura riconosciuto il pagamento delle ore di straordinario effettuate, sempre però che ci siano i fondi; chissà, probabilmente per evitare tale esborso per l’erario, i maggiori responsabili degli istituti, mostrando eroico senso pubblico del risparmio, avrebbero potuto e dovuto abbandonare ogni giorno le carceri alle 14 in punto, soprattutto in caso di proteste e rivolte anche violente dei detenuti, così come in presenza di risse, suicidi, perché come si sa, questi disguidi impegnano tempo.

E poi, in fondo, è noto a tutti come le carceri italiche siano obiettivamente luoghi sereni e monotoni, vedasi per ultima Santa Maria Capua Vetere: sempre le stesse rivendicazioni del personale penitenziario, in sottorganico da lustri, sempre gli stessi tossicodipendenti, sempre più vecchi, infettivi e sdentati, sempre le stesse gerarchie criminali, oggi ancora più forti perché in grado di governare pure le piazze penitenziarie, rectius, i larghi corridoi dei reparti detentivi, dove, come se fossero dei fori commerciali, si affacciano le celle aperte per un tempo non inferiore alle otto ore giornaliere e dove può accadere di tutto che, ovviamente, non sarà mai raccontato.

Questi luoghi, infatti, sono presidiati dalle stesse organizzazioni criminali con rigore militare, mentre gli agenti, da fuori le sezioni, possono solo immaginare cosa accada in quegli slum, di ferro e cattivo acciaio, commisto di odore di sugo, curry, candeggina e, non di rado, sangue.

I luoghi, comunque, rispettano l’italica tradizione dei decumani e si coniugano con la monotonia del carcere: ove si constaterà la stessa sbobba alimentare, somministrata di regola dalle medesime imprese operanti da tempo immemorabile, e poi sempre gli stessi orari della vita- nonvita quotidiana, sempre gli stessi cancelli e le stesse grate, sempre gli stessi autolesionismi di braccia tagliate, di labbra cucite, di scioperi della fame, di medici che non si trovano; sempre gli stessi noiosi suicidi ed evasioni, che poi sono la stessa cosa: a volte si evade con il sogno, con un libro e con la fantasia, a volte, invece, con la carezza di un lenzuolo stretto al collo, altre volte, poche, scivolandoci sopra, come un dito scorre la corda tesa di una chitarra, un intreccio di pezze rubate ed annodate che ti portano sulla strada, dove potrai palpare la libertà!

Direttori in via di estinzione, ricordavo, che si assottigliano giorno dopo giorno, come il Kebab, e con carceri ormai dirette “a distanza”, perché molti dirigenti, oltre alla ordinaria sede naturale, ne devono coprire, contemporaneamente, almeno altre due o tre, se non quattro, perfino ubicate in regioni diverse.

Si aggiungano poi gli ulteriori incarichi a scavalco, quelli della Giustizia Minorile e di Comunità, per supplire pure la carenza dei dirigenti degli uffici distrettuali ed interdistrettuali dell’Esecuzione Penale Esterna ( le riforme a costo zero, sono questo dopotutto…), i quali si interessano, prevalentemente, di misure alternative alla pena, della messa in prova e dei lavori di pubblica utilità.

Le carceri italiane, quindi, come navi alla deriva, senza direttori che provino a mantenere una rotta credibile, e con a bordo equipaggi stanchi, demotivati e preoccupati, ma stracolme di passeggeri obbligati, rumorosi, in guerra tra loro, e poco interessati ai tramonti, insomma comunità abbandonate.

Ma la cosa non interessa, l’importante è che le macellerie penitenziarie mantengano le saracinesche abbassate e tutto rimanga chiuso nelle celle frigorifere, vivi o morti non fanno differenza, come quelli di Modena. Intanto il container arrugginito, per stare sempre in mare, continua a riempirsi: tossici, qualche spolveratina di colletti bianchi, folli e folletti, piccoli delinquenti e grandi criminali, giovanissimi in carriera e ottuagenari che hanno scritto la storia delle criminalità, autolesionisti e portatori di malattie psichiatriche, falliti aspiranti suicidi e persone disabili, donne e bambini e qualche cimice da letto, tutto uguale e monotono.

I suicidi, oramai riguardano pure gli stessi operatori penitenziari, in psicologia si dice “ricalco”, non c’è bisogno della stampante tridimensionale delle carceri, d’altronde i poliziotti sono stanchi: turni spesso terribili, sempre tesi e sul chi vive, si sentono come esche sanguinolente in mezzo ai pescecani, con un rapporto, se va bene, di un agente e trenta/ quaranta detenuti e l’insicurezza può generare mostri, gli educatori poi, sono pochissimi, e non sanno come dividersi nei mille compiti che devono assicurare. Gli psicologici, poi, sono professionalità rara, pagati ad ore come le sguattere, massimo 80 ore mensili: eppure dovrebbero scandagliare le personalità dei detenuti, per fornire alla magistratura di sorveglianza elementi obiettivi di giudizio per le proprie decisioni: con 80 ore e semmai 100 detenuti da osservare, è già tanto se gli psicologi riusciranno a ricordarne i nomi esotici e le nazionalità. Tutto ciò, evidentemente, acuisce le tensioni e la rabbia, trasfor-mando in una mera aspirazione le condizioni di vita che si vorrebbero di ordine e legalità e che non solo tranquillizzerebbero l’opinione pubblica ma anche le famiglie dei ristretti, oltre che quelle dello stesso personale.

In verità, mai come adesso ci vorrebbe un’azione di politica penitenziaria sistemica, che derivasse anch’essa da una visione strategica delle problematiche della giustizia, anzi della non giustizia, invece si preferisce continuare ad abbandonare le navi alla deriva, ben sapendo che in caso di affondamento esse trascineranno, senza distinzioni, detenuti e detenenti, ma in fondo, anzi nel fondale, cosa interessa, l’importante è occupare Roma e gli scranni alti del Dap, dopotutto c’è sempre un giudice che ci assolve a Berlino.

* Penitenziarista – Già Dirigente Generale dello Stato