Fummo facili profeti, alcuni mesi fa, a dire che si era aperto al centro dello scenario politico una voragine: la crisi dei Cinquestelle, terremotando qualsiasi equilibrio possibile. Lo scontro tra Beppe Grillo e Alessandro Di Battista non è che il portato di quella crisi.

Ci sono due considerazioni possibili. La prima concerne l’M5S. Il richiamo di Di Battista ad un congresso suonerebbe giustificato ma diventa paradossale per un MoVimento che ha fondato la sua identità sul rifiuto della forma partito che, al contrario, la celebrazione di un congresso sancirebbe. E poi: chi sceglierebbe i delegati? Con quale criterio? Con quali poteri? Altro che ritorno alle origini. In qualunque forma si dovesse svolgere, quel congresso sancirebbe la definitiva trasformazione dei Cinquestelle in quello che mai avrebbero voluto essere.

Meno paradossale ma più contundente risulta la risposta di Grillo. Che squaderna una concezione pseudo- proprietaria del MoVimento. Le marmotte sono roditori. Vanno in letargo ma quando si svegliano fermarle è complicato. C’è chi si è spinto a parlare di scissione: forse esagera. Però il fatto che finalmente i Cinquestelle discutano chi sono e chi devono essere, con quali alleati e con quali prospettive, è un bene.

La seconda considerazione concerne il presidente del Consiglio. Ci sono evoluzioni che anche il più abile degli equilibristi non può permettersi. Giuseppe Conte doveva essere “l’esecutore” dell’accordo di governo gialloverde, indossando ( e vantandosene) una robusta casacca populista. Poi è diventato il primus inter pares di quell’esecutivo con due vice politicamente più pesanti di lui. Poi l’uomo dell’anatema contro Salvini. Poi il tecnico che salda il passaggio dal gialloverde al giallorosso. Poi «un fortissimo punto di riferimento di tutte le forze progressiste», Zingaretti dixit. Poi il capo di un partito personale ( mai fondato e smentito) capace di sfondare il muro del 15 per cento. Per ultimo (?) il nuovo leader dei Pentastellati che con lui rinverdirebbero i fasti del 2018: a patto, ricorda Di Battista, che almeno si iscriva al partito- non partito.

Ce n’è da far girare la testa al più acrobatico dei funamboli. Vero è che parecchie di quelle etichette Conte non le ha scelte: gli vengono appiccicate addosso. Tuttavia il punto politico non muta. Poiché l’inquilino di palazzo Chigi è considerato nella fase attuale l’unico interprete possibile dell’equilibrio di governo, ricade sulle sue spalle l’onere di sedare i sommovimenti che minacciano di sfarinare la maggioranza.