Gli Stati Generali rischiano di diventare una via crucis per il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Ad ogni tappa, una certezza in meno per la solidità del suo governo. La sua fuga in avanti con l’organizzazione del meeting di villa Pamphili, infatti, da sua privata passarella e strumento per accreditarsi anche in Europa, è diventata il collante del malumore della sua coalizione. Che i rapporti con il Movimento 5 Stelle fossero già piuttosto tesi non era un mistero, ma gli Stati Generali hanno centrato l’effetto di irritare profondamente anche il leale Pd, soprattutto nella sua componente parlamentare.

Il sentimento comune al Nazareno, infatti, è che il premier abbia ripagato la correttezza dei dem con lo sgarbo di ignorare l’unica vera e decisa posizione rivendicata dal Pd: la necessità di riportare il Parlamento al cento come luogo di elaborazione e non solo di ratifica. Con gli Stati Generali, invece, Conte ha voluto ancora una volta - dopo la stagione dei Dpcm e delle task force - come la gestazionee delle scelte avvenga in luoghi altri rispetto alle Camere. Errore di leggerezza o scelta consapevole, il risultato non cambia: nonostante i tentativi di abbassare i toni di Nicola Zingaretti, ha acquistato nuovo terreno la strategia di Dario Franceschini.

Il potente ministro della Cultura, abituato a giocare su più tavoli e ad avere sempre un Piano B pronto all’occorrenza, da settimane sta lavorando a una alternativa al premier Conte, trovando sponda anche tra i grillini. E la forzatura impressa con gli Stati Generali potrebbero essere l’ennesima riprova che, per far cambiare passo al Paese, serva un premier diverso a maggioranza invariata. Si sa, però, che la praticabilità del percorso è determinata anche dagli attori e il dialogo tra 5 Stelle e Pd si sarebbe spinto al punto di ipotizzare qualche nome. Se i 5 Stelle, dato il calo nei sondaggi ma anche il cantiere aperto dentro il Movimento per individuare il nuovo leader, non sono in grado di esprimere un nome organico, la convergenza si è cercata su un esponente dem gradito ai grillini. La rosa di nomi, che pescherebbe sempre dal governo, si sarebbe ridotta a quello dello stesso Dario Franceschini, teorico della prima ora dell’alleanza organica e tra i più dialoganti con gli alleati al punto da essere tacciato dal suo partito di eccessiva arrendevolezza; quello del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, considerato uomo chiave del rilancio ma allo stesso tempo anche negoziatore del Mes, su cui i 5 Stelle sono tutt’ora scettici e infine il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. Sarebbe proprio il nome di quest’ultimo, il più quotato. Rimasto nelle retrovie durante tutta la pandemia, Guerini ha tessuto la sua tela nelle retrovie. In politica da tutta la vita ed ex democristiano come Franceschini, Guerini è molto apprezzato al Quirinale per la sua pacatezza e capacità di lavorare dietro le quinte, arte per la quale è riconosciuto tra i più abili pontieri anche nei confronti dei 5 Stelle. Inoltre, la sua figura riuscirebbe a tenere insieme anche i riottosi renziani, essendo Guerini a sua volta ex renziano, addirittura considerato tra i possibili transfughi al momento della nascita di Italia Viva. Il nome ci sarebbe, l’alleanza non verrebbe toccata e l’unico a saltare sarebbe il mai eletto Giuseppe Conte, che a quel punto non avrebbe alcun luogo se non la sua cattedra universitaria dove attendere nuove elezioni nel 2023. In politica, tuttavia, niente è facile come quando viene pianificato, men che meno un rimpasto di governo che tocchi proprio la casella di Palazzo Chigi, soprattutto quando la congiuntura economica è così delicata. Ora, dunque, la variabile sono Stati Generali di Conte: la loro riuscita e la capacità del premier di muoversi e ricucire dove ha rotto saranno determinanti per capire quanto vicina sia l’ora X alla congiura anti- Conte.