Sono trascorsi pochi giorni dalla riapertura dei confini tra le regioni ma diversi mesi dall'entrata nel coronavirus in Italia. Facciamo un bilancio con l'immunologa Antonella Viola, Scientific Director presso l'Istituto di Ricerca Pediatrica Fondazione Città della Speranza a Padova.

Come interpretare i dati di questi primi giorni di riapertura?

I dati sono molto positivi. Il virus è ancora presente sul territorio ma il numero di contagi resta su livelli bassi. Bisogna mantenere un sistema di sorveglianza attiva per evitare che possa crearsi qualche nuovo focolaio; da parte dei cittadini, soprattutto quelli a maggiore rischio di sviluppare sintomatologia grave, è importante mantenere alto il livello di attenzione, evitando luoghi troppo affollati. Ma nonostante la situazione non omogena tra le varie regioni, credo sia corretto permettere la circolazione dei cittadini sul territorio nazionale e fuori di esso.

Ha suscitato molte polemiche la frase del professor Zangrillo “clinicamente il virus non esiste più”.

Noi ricercatori, quando siamo chiamati a parlare di fronte ai cittadini, abbiamo il dovere di non esprimere opinioni personali ma di basarci sui fatti o sulle ipotesi condivise dalla comunità scientifica internazionale. Purtroppo, durante la “infodemia” associata alla pandemia Covid 19, molte volte i miei colleghi hanno dimenticato questo importante concetto. So benissimo che i clinici non vedono più pazienti gravi e che le terapie intensive si sono svuotate. Ma interpretare questo come una minore aggressività del virus, senza dati scientifici di supporto, non si può fare. Un virus, per cambiare il proprio comportamento, deve mutare e la mutazione deve essere selezionata, cioè deve conferire al virus un vantaggio in termini di diffusione nella comunità. Ad oggi non ci sono evidenze di mutazioni nel Sars- Cov2 che possano spiegarne una minore infettività o aggressività. Non dimentichiamo che nel mondo il virus continua ad uccidere e quindi la situazione positiva che abbiamo raggiunto nel nostro Paese è il risultato delle misure messe in atto per combattere l’infezione. Il lockdown è stato un enorme sacrificio per gli italiani ma ha funzionato.

Giudica quindi positive le misure del governo?

Le misure adottate nella fase 1 sono state molto prudenziali ma altamente efficaci. Nella fase 2, si è deciso di correre molti più rischi per poter fronteggiare la grave crisi economica. È stata quindi una scelta che ha dovuto trovare un delicato e difficile equilibrio tra salute e ripresa del lavoro. Le prime riaperture sono state molto contenute e non hanno avuto conseguenze. Per quelle ampie, dal 18 maggio ad oggi, possiamo dire che i dati sono ottimi e che non si registrano aumenti di contagi. Per tirare davvero un sospiro di sollievo, forse dovremo aspettare la metà di giugno.

Cosa abbiamo imparato su questo virus?

All’inizio per noi scienziati era completamente sconosciuto e abbiamo avuto bisogno di essere estremamente cauti nelle nostre previsioni. Nella prima fase, quello che era chiaro era la capacità del virus di scatenare in alcuni pazienti una potente risposta infiammatoria, con produzione di citochine in grado di danneggiare polmoni, reni, endotelio. Oggi sappiamo che in buona parte dei guariti si genera una risposta anticorpale protettiva, si possono cioè identificare anticorpi neutralizzanti in grado di bloccare l’ingresso del virus nelle cellule. Diversi laboratori hanno isolato o prodotto anticorpi neutralizzanti che potrebbero rappresentare un primo farmaco specifico contro il Sars- Cov2. Non sappiamo però quanto duri la produzione di anticorpi, se la loro concentrazione nel sangue dei guariti si abbassi rapidamente, nel giro di qualche mese, o se rimanga alta per qualche anno. Non sappiamo perché in alcuni pazienti questa risposta protettiva sia efficace e in altri non funzioni, lasciando il virus libero di replicarsi. Bisognerà capire quali sono le cellule e le molecole responsabili della minore o maggiore suscettibilità all’infezione, a livello individuale e di gruppi di pazienti. Per esempio, perché i bambini sono meno colpiti pur avendo un sistema immunitario ancora non maturo e perché le donne sviluppano una malattia meno grave degli uomini.

Secondo lei quando potremo avere un vaccino?

Francamente mi vorrei sottrarre a indovinare una data: si sta correndo molto velocemente e diversi prodotti sono al momento in una fase di studio avanzata. Si stanno tentando approcci nuovi e più veloci di quelli classici, ma bisognerà comunque passare attraverso una serie di fasi di validazione. Il vaccino deve essere sicuro e deve conferire protezione a giovani e anziani, quindi deve essere testato su un gran numero di persone prima di essere messo in commercio. Considerando la grande quota di asintomatici nell’infezione da Sars- Cov2, questo complica le cose. Si è suggerito di poter scegliere dei giovani volontari che possano essere vaccinati e poi infettati col virus per accelerare i tempi della sperimentazione. Questo ha però forti implicazioni etiche perché il rischio di una grave sintomatologia nei pazienti giovani è basso ma non è nullo. Inoltre, il fatto che il vaccino sia in grado di proteggere un giovane sano non implica che sia protettivo in un anziano malato. Questi sono solo alcuni dei problemi, senza parlare poi dei tempi di produzione e distribuzione. È logico pensare che difficilmente si potrà avere un vaccino prima della primavera prossima.

La scienza ha bisogno di tempo per arrivare a risposte definitive. Mentre questa pandemia ha stravolto il sistema e preteso risposte immediate.

La pandemia ha fatto saltare tutti gli schemi classici nei quali la scienza si muove. Abbiamo visto dati messi a disposizione dell’opinione pubblica senza passare attraverso un processo di revisione da parte della comunità scientifica; abbiamo visto tentare terapie sui pazienti senza un razionale forte; abbiamo sentito parlare persone poco competenti o poco interessate a rappresentare la comunità scientifica nella sua interezza. Le opinioni non supportate dai dati sono state regolarmente proclamate in televisione o sui giornali, costringendo altri colleghi a dover intervenire con smentite. Questo ha creato stupore e diffidenza nei cittadini, che non riescono a comprendere chi abbia ragione e chi torto. È accaduto all’inizio quando alcuni colleghi hanno parlato del Covid 19 come di una banale influenza e si è ripetuto uno schema simile in molte altre occasioni. A noi scienziati quello che è accaduto dovrebbe insegnare a non avere fretta, a non lasciarci guidare dalle sensazioni personali, a ricordarci che, quando parliamo, rappresentiamo una comunità.

Come far ritornare nei cittadini la fiducia nel metodo scientifico?

C’è una grossa differenza tra esprimere le proprie idee durante un congresso scientifico – ed esporsi alla confutazione da parte dei colleghi – e lanciarle sull’opinione pubblica durante un talk- show! La ricerca si basa sul dubbio, la discussione, la falsificazione, la verifica: ma tutto questo deve avvenire prima di comunicare con la stampa. Quindi certamente sono favorevole ad un confronto/ scontro tra scienziati – e le dirò che mi mancano i congressi di una volta in cui questi confronti erano molto più accesi – ma questo deve avvenire discutendo di dati, utilizzando il metodo scientifico, basandosi sulle conoscenze verificate.

Lei da anni studia i meccanismi che regolano l’attivazione del sistema immunitario, in diversi contesti fisio- patologici, incluso il cancro.

Grazie ai risultati ottenuti negli anni oggi abbiamo degli strumenti davvero importanti nella lotta contro il cancro. Parlo degli anticorpi inibitori di checkpoint – per i quali è stato assegnato il Nobel per la Medicina nel 2018 – e le cellule CAR- T. Oggi io dirigo un istituto di ricerca pediatrica in cui l’oncologia è una parte molto importante; ricordiamo allora un dato: nelle leucemie pediatriche, per esempio, la sopravvivenza è passata da uno scarso 30% nei primi anni ’ 70 ad oltre l’ 80% di oggi. E questo andamento positivo si osserva in tutti i tumori pediatrici. C'è ancora molto da fare perché ancora oggi noi perdiamo tanti, troppi bambini: ogni anno in Italia muoiono di tumore circa 450 bambini. Ma la ricerca va avanti e siamo fiduciosi di riuscire a identificare nuove soluzioni. Servono investimenti, più meritocrazia, meno burocrazia e grande capacità di visione a lungo termine.