«Un giorno senza football è un giorno inutile». Parola di Ernst Happel, uno dei più grandi allenatori di calcio di tutti i tempi, austriaco. Aveva ragione. Il calcio non è soltanto un gioco... È la metafora della vita, è la simulazione della guerra per fortuna incruenta, è il sogno di popoli un tempo diseredati, come quelli sudamericani, è la sublimazione della felicità per centinaia di milioni di ragazzini in ogni angolo del mondo.

Da un momento all’altro ci siamo accorti che il pallone è andato smarrito. Le parole hanno preso il posto del gioco. Si sono ritratti gli entusiasmi e ci siamo come nascosti, impotenti e vuoti, sapendo che non ci sarebbero stati campionati, né coppe a riscaldare chissà per quanto tempo le nostre giornate. Il calcio se l’è portato via il pipistrello, come molte altre cose in questa stagione maledetta. E ci siamo accorti di essere diventati afoni e sordi davanti al muro cadente del football. Da un capo all’altro del Pianeta si sono rarefatte le invocazioni agli idoli e le speranze ludiche sono naufragate nelle lugubri sale delle terapie intensive. E noi, calciofili intabarrati e reclusi, abbiamo sopperito alla mancanza del nostro sport vitale con il metadone di vecchi filmati, biografie datate, celebrazioni di scudetti come a quello del Cagliari che pigramente le televisioni hanno mandato in onda in questo periodo quasi per non farci dimenticare del football.

A dire la verità, se anche avessimo voluto, non lo avremmo riposto tra la carabattole inservibili. I giornali quotidianamente ci hanno tenuto informati del nulla, vale a dire della stucchevole disputa sulla ripresa o meno dei tornei, sullo sconfinamento temporale del campionato del prossimo anno, dello stravolgimento di tutti i calendari planetari e delle estenuanti controversie tra governo, Federaziome calcistica, Lega calcio, club e giocatori, televisioni che non vogliono pagare per i mesi perduti e società che pretendono il rispetto di contratti nei quali non poteva evidentemente essere contemplata la sospensione dell’attività agonistica in ragione dell’apparizione del coronavirus.

L’amato sport, davanti dal profluvio di contumelie e di argomentazioni causidiche, ci è venuto a noia. Non è un caso che i giornali sportivi abbiano dimezzato le vendite, già non particolarmente ragguardevoli, piene delle diatribe politico- societarie con contorno di fantasie obbligatorie per riempire le pagine come i trasferimenti ed i “tradimenti” dei calciatori, i passaggi più o meno certi, più o meno falsi, dell’acquisizione di questo o quel campione, o sedicente tale, dell’indifferenza che sta venendo fuori di atleti che non si sopportano o che fuggono dai club di appartenenza non si sa bene perché. Insomma, nessuno sa come andrà a finire. Certo è che gli stracci voleranno se si dovesse arrivare a metà giugno con le squadre pronte a ripartire davanti a spalti vuoti; se almeno un calciatore dovesse risultare positivo al tampone; se il tormento di tre mesi dovesse finire con la chiusura anticipata della stagione e magari la decretazione della vittoria del titolo, con quel segue in termini di promozioni, retrocessioni e qualificazioni alle Coppe europee. Ancor di più ( ma se ne parla poco) la maggior parte delle società che militano nelle serie minori non potrebbero fare altro che portare i libri in tribunale e così si sistemerebbe per sempre quel calcio minore che è poi il calcio migliore, il calcio della provincia italiana, il calcio del campanile nel quale chiunque può riconoscersi.

Insomma, se tutto andrà bene si riprenderà zoppicando. Se il pipistrello dovesse metterci le orride ali, non ci resterà che aspettare tenendo in cuor nostro la massima di Happel e ricordando che si può anche vivere senza calcio, ma con tanta tristezza. Albert Camus diceva: «Non c’è un altro posto del mondo dove l’uomo è più felice che in uno stadio di calcio».

E con gli stadi chiusi la tristezza cala inesorabilmente anche se sul terreno di gioco dovessero affrontarsi Zamora e Maradona, Pelé e Beckenbauer, Rummennigge e Rivera, Sivori e Garrincha, Di Stefano e Charles... e i morti del Grande Torino. Per una ragione molto semplice che solo un poeta poteva individuare. Eugenio Montale sosteneva : “Dallo stadio calcistico il tifoso retrocede ad altro stadio: a quello della sua stessa infanzia”. È il vero stadio nel quale vorremmo tornare. Insieme con Ernst Happel, magari. Nell’età in cui non vediamo i pipistrelli volare.