Non accenna a concludersi la lite furibonda tra il magistrato del processo Trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, e il Guardasigilli Alfonso Bonafede. E lo sconcerto dentro il gruppo grillino - che ha avuto bisogno di 24 ore prima di difendere il suo ministro - continua a crescere. In una intervista a Repubblica, Di Matteo non ritratta e anzi rincara la dose, nonostante Bonafede abbia negato la sua versione dei fatti sulla nomina a capo del Dap. «Prima una proposta, poi un’altra» dal ministro Bonafede. «Da allora mi sono sempre chiesto cosa era accaduto nel frattempo. Se, e da dove, fosse giunta una indicazione negativa, magari uno stop degli alleati o da altri, questo io non posso saperlo», ha detto il consigliere del Csm, confermando la sua versione: «Era lunedì 18 giugno. Ero a Palermo, a casa, il giorno dopo sarei tornato a Roma, nel mio ufficio alla Procura nazionale antimafia. Squillò il telefono, era Bonafede. Mi pose l’alternativa, andare a dirigere il Dap oppure prendere il posto di capo degli Affari penali. Chiuse il telefono dicendo ’scelga leì». All’indomani, Di Matteo si reca al Ministero per incontrare Bonafede. «Gli dissi che accettavo il posto di capo del Dap. Lui, però, a quel punto, replicò che aveva già scelto Basentini». Quanto al repentino cambio di idea, Di Matteo afferma: «Non chiesi al ministro Bonafede perché aveva cambiato idea» sulla mia nomina al Dap «ma rimasi sorpreso».

"Non c'è nessun dissenso agli Affari penali"

Ma rilancia la sua ipotesi:«Devo presumere che quella notte qualcosa mutò all’improvviso. Bonafede insistette sugli Affari penali, parlò di moral suasion con la collega Donati (che in quel momento era a capo degli Affari penali ndr) perché accettasse un trasferimento. Non dissi subito no, ma manifestai perplessità. Siamo a giugno, disse Bonafede, lei mi manda il curriculum, a settembre sblocchiamo la situazione». A quel punto, «Tornai da lui e gli dissi che a queste condizioni non ero più disponibile. Cose come queste sono indimenticabili». E, a conclusione del racconto, Di Matteo aggiunge: «Come il nostro ultimo scambio di battute, io gli dico di non tenermi più presente per alcun incarico, lui ribatte che per gli Affari penali "non c’è nessun dissenso o mancato gradimento che tenga". Una frase che, se riferita al Dap, ovviamente, mi ha fatto pensare».

"Io trattato in modo non consono"

«Pensai allora e ho sempre pensato di essere stato trattato in modo non consono per la mia dignità professionale. Io vivo una vita blindata da 15 anni, mi muovo con 15 uomini intorno che controllano ogni mio movimento. Sulla mia testa pende una condanna a morte mai revocata di Riina. Collaboratori attendibili continuano a dire che per me l’esplosivo era già pronto. Faccio il magistrato e con tutto quello che ho fatto nel mio lavoro sapevo e so che non devo chiedere niente».

La reazione delle Camere Penali

Il presidente dell'Unione camere penali italiane, Gian Domenico Caiazza, ha commentato dalle pagine del Foglio la vicenda Bonafede-Di Matteo, stigmatizzando il comportamento del magistrato. «Non siamo certo sospettabili di indulgenze nei confronti del ministro Bonafede, il tema dunque è un altro: a che titolo il dottor Di Matteo bombarda il ministro in carica insinuando con chiarezza che la revoca della proposta della sua nomina a capo del Dap sarebbe avvenuta per timore o compiacenza dopo le banali recriminazioni di alcuni detenuti al 41 bis?» È la domanda che si pone Caiazza. «E' una cosa fuori dal mondo e risponde all’idea, ipertrofica, dell’invadenza della magistratura mediatica sulle dinamiche democratiche. Anche su quelle che non ci piacciono».

Caiazza: Bonafede non deve render conto a Di Matteo

Poi continua: «Oltretutto, non abbiamo capito di cosa stiamo parlando: e se anche Bonafede avesse cambiato idea nottetempo? Oppure se, in virtù delle dinamiche della politica (proposte terze, suggerimenti del presidente della Repubblica o dell’Anm) avesse preferito altri equilibri? Non deve renderne conto a Di Matteo. Non si capisce insomma la ragione di questo attacco a distanza di due anni. Forse Di Matteo sperava di andare a dirigere il Dap adesso». Di certo, aggiunge il presidente Ucpi, «un pm, a maggior ragione se componente del Csm, non può permettersi per nessuna ragione al mondo di chiamare un ministro a discutere delle sue valutazioni politiche. Chi ha l’onore di ricoprire un incarico di così grande rilievo costituzionale, deve sapersi auto-limitare; questo non significa rinunciare a esprimere le proprie opinioni, ma vuole dire farlo nelle forme e nei modi corretti». Siamo «all’implosione di un mondo che ha costruito la propria fortuna politica e non solo, anche editoriale e giornalistica, sul parassitismo dell’antimafia». «Alcuni soggetti hanno parassitato l’antimafia per farne una leva politica e di distruzione dell’avversario politico - spiega Caiazza -, è un aspetto che dovrebbe far riflettere seriamente».