Era inverno quando ci siamo rinserrati nelle nostre case. La primavera ora batte sui vetri delle finestre ed il sole inonda i balconi dove timidamente le piantine che sembravano morte hanno ripreso nuova vita. Guardiamo con un sentimento di gratitudine il cielo che più azzurro non potrebbe essere in questa stagione, ma il dolore batte forte nel petto ricordando i tanti, troppi morti, i malati che combattono nelle terapie intensive, quelli meno gravi che convivono con la paura di peggiorare, quelli più anziani e soli che non sanno che cosa attendersi. In questa primavera che quasi tutti aspettavano come apportatrice di speranza e vita nuova si insinua la rassegnazione. Ce lo diciamo apertamente che lunga sarà la strada verso una parvenza di normalità, ma illuderci non costa niente a patto di mettere in conto la delusione quando dopo le diverse fasi programmate ci ritroveremo ancora a combattere con distanziamenti sociali e mascherine, mentre il paesaggio attorno a noi continuerà a mutare e ci coglierà impreparati, come lo siamo stati agli inizi del febbraio scorso. Noi non sappiamo assolutamente nulla di quel che potrà accadere. Mettiamo sul tavolo i pezzi di una tragedia e cerchiamo di ricomporla come un puzzle, senza riuscirci. Onestamente nessuno può dirci che cosa sarà della nostre vite tra uno o due mesi, del nostro Paese, della cosiddetta “ripresa”. I numeri dicono poco. Siamo davanti ad uno di quegli enigmi della storia destinati a condizionare il futuro che fattori scombinati e incomprensibili stanno preparando per noi.

Ma siamo esseri umani, abbiamo creduto a tutto o quasi nel tempo della trionfante modernità, perfino all’assicurazione sull’avvenire che ci veniva promessa, perché non dovremmo cullarci nella prospettiva di una rinascita che non riusciamo a vedere nonostante le promesse governative, il “cauto ottimismo” degli scienziati, le miracolistiche formule che sciamani confusionari ci ammanniscono? Per una ragione molto semplice: nessuno sa nulla. O meglio, tutti sanno una cosa sola: soltanto il vaccino può renderci immuni dall’aggressione del morbo che, come è chiaro, da ospite sgradito si è insediato tra di noi ed è deciso a non andarsene. Dunque, non ci resta che convivere con lui conoscendo la sua aggressiva ostilità e la nostra debolezza. Il contagio non ci ha fortificati nelle nostre certezze di superiorità, semmai le ha messe in discussione più di prima. E ci ha fatto scoprire fragili, insicuri, scarsamente o per nulla solidali, corazzati ( si fa per dire) nel nostro egoismo, pavidamente inclini ad adeguarci ai voleri di una sorta di Leviatano che necessariamente ha limitato le nostre libertà più elementari e primarie, fino a vietarci l’abbraccio, le manifestazioni di affetto, l’amore. Ma quale altra alternativa avevamo per poter sopravvivere? Sono francamente ridicoli coloro i quali contestano il solo sistema protettivo che abbiamo a disposizione, ma si guardano bene dall’indicarne uno alternativo.

La loro albagia intellettualistica li fa smarrire nei meandri di un labirinto nel quale intravedono lo Stato di Polizia e si lamentano dello “stato d’eccezione” maneggiato con gli strumenti tecnico- giuridici a disposizione per salvare quante più vite possibili. Per quanto complessa, la verità, denudata dalle sofisticherie degli intelló, è semplice: se si sceglie la via della sopravvivenza non c’è altro da fare che accettarne le conseguenze; al contrario, nessuno impedisce di attuare piani autodistruttivi che pregiudicheranno le esistenze degli altri per un tempo immemorabile. La conservazione della vita è il principio fondante di ogni comunità. E non ne ricordiamo neppure una che abbia deciso di non accettare sacrifici collettivi pur di durare, sperabilmente con dignità. Messo in discussione tale principio, è fin troppo facile che si aprano le vie della dissoluzione sociale, per giunta, nella fattispecie, a causa dell’apparizione di un nemico invisibile come, peraltro, è già accaduto in tempi remoti e meno remoti.

Se si accetta che sovrano è colui che decide sullo “stato di eccezione”, prendendo in prestito la lezione di Carl Schmitt, alla sua sovranità è necessario sottomettersi, a meno di non volersi consegnare al caos permanente, alla ferocia innescata dal rifiuto della legalità e della legittimità. Anche nei sistemi democratici lo Stato d’eccezione è praticabile, non è uno stravolgimento del plebiscitario o che prelude alla comparsa dell’uomo forte. E pertanto se non un “governo degli ottimati”, quanto meno una classe politica responsabile e accettata nella sua composizione e diversificata nei ruoli al suo interno, può sostenere l’eccezionalità di un momento, fino a sospendere, se del caso, libertà ritenute intangibili. Questo è quel poco che sappiamo e di cui dobbiamo accontentarci. Può non piacere lo Stato “creatore del diritto”, come dicevano i giuristi tedeschi del secolo passato, ma non si vede un’altra via per contenere ( sempre che funzioni e dia i risultati sperati) la disperante prospettiva della distruzione: c’è stato chi, in nome di un bizzarro liberalismo molto libertario ha ipotizzato l’immunità di gregge che sarebbe costata centinaia milioni di morti su scala planetaria per garantire ai più forti ( o fortunati) una sopravvivenza che immaginiamo allucinante e larvale. Non sappiamo, nonostante gli sforzi che vengono fatti, in maniera spesso confusa e contraddittoria, quel che sarà di noi da qui alla prossima primavera, quando il sole tornerà a bussare alle nostre finestre. Ci auguriamo che le trovi aperte, che le stanze vengano inondate da una luce nuova, che nel frattempo la vita sia rinata nei nostri cuori. In compagnia della nostra ignoranza non abbiamo altro che quel che vediamo, realizzato più o meno bene più o meno male, per continuare a vivere.