Parlateci con Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano. Perché si deve dare retta per un po’, per qualche minuto, alla sua voce ferma, di magistrata consapevole della propria funzione, lucida ma commossa dalla «tragedia nella tragedia: perché, vede, il Covid è una cosa terribile, ma in carcere può esserlo di più». Parlateci, ascoltate i magistrati come lei, fatevi raccontare, se possibile, dei detenuti che sono disabili, anziani o comunque in gravi condizioni, e per i quali «l’accoglienza solidale non sempre riesce a offrire un alloggio adeguato a scontare la pena ai domiciliari, seppure sarebbe doveroso. Si tratta di persone che andrebbero assistite, e che in carcere sono i bersagli preferiti del virus. I più esposti». Forse si deve spegnere per un attimo il rumore di fondo dell’ideologia sul carcere e ascoltare solo la voce di un magistrato come la presidente Di Rosa.

Ormai il suo ufficio è costretto a lavorare in un semi accampamento. Sì, dopo l’incendio abbiamo dovuto sistemare cinque postazioni in un piano diverso. Di fatto è un Tribunale di sorveglianza da campo. Difficoltà enormi. Vanno recuperate le carte nella zona incendiata e va dato un ordine ai documenti che continuano ad arrivare. Non si possono accatastare certo alla rinfusa e anzi ora evadere le istanze è drammaticamente urgente.

Si riferisce alle domande di scarcerazione legate all’emergenza Covid?

Sì, diamo precedenza assoluta a tutte le domande relative alla libertà personale. Altri affari pure di notevole rilievo, come la conversione in pena pecuniaria o la remissione del debito di giustizia, cedono inevitabilmente il passo a tutti gli atti relativi a richieste connesse a motivi di salute.

Sul giudice di sorveglianza, ora che c’è l’epidemia, ricade un peso psicologico maggiore?

Il peso corrisponde alla consapevolezza della responsabilità legata alla nostra funzione. Si tratta di una responsabilità che esiste in sé, che si lega a un esercizio delicatissimo, alla valutazione sulla possibilità di concedere misure alternative alla detenzione inframuraria, ma anche all’impossibilità di essere curati nelle strutture penitenziarie. Ora si è aggiunta una nuova categoria di problemi: la decisione che riguarda detenuti con patologie pregresse.

I più esposti al virus.

Lo sono, è evidente. Adesso le conseguenze sono gravissime. In particolare nel caso di persone in età avanzata. Quando il pg Salvi chiede di applicare le leggi esistenti in relazione a tale nuovo tragico scenario, si riferisce anche ai rischi per i più anziani? Sicuramente: ho davvero apprezzato il documento del procuratore generale, rivolto certo innanzitutto alla magistratura inquirente, ma ispirato da uno sguardo molto ampio. Una riflessione rivolta al diritto che vive, ossia alla necessità di calare le tutele giuridiche nella realtà concreta delle situazioni. Lasciare in cella una persona vulnerabile al contagio può voler dire innescare una catena epidemica immediata. E noi magistrati di sorveglianza, se chiamati a decidere in via provvisoria, siamo tenuti a valutare il pregiudizio eventualmente causato dalla permanenza negli istituti di pena. La situazione delle carceri lombarde può precipitare?

Noi abbiamo fatto tutto il possibile. È dal 21 febbraio che siamo in una situazione terribile. Nel nostro distretto il sovraffollamento medio è del 143 per cento, ma ci sono istituti dove siamo a quota 200.

I detenuti sono il doppio dei posti.

Ecco, allora abbiamo affrontato l’emergenza, definito in modo favorevole 450- 500 istanze di libertà personale, li abbiamo scarcerati. Ma da quel 21 febbraio siamo in emergenza assoluta anche in termini di personale.

È una lotta titanica.

Nel distretto di Milano c’erano 6.600 detenuti, ne abbiano scarcerati 500, abbiamo lavorato intensamente, abbiamo dato priorità agli anziani, ma c’è anche tanto dispiacere per i reclusi anziani e malati che non hanno casa. E che quindi non possono andare ai domiciliari, giusto? Parliamo di anziani spesso disabili, che hanno bisogno di accompagnamento e che non è possibile gestire nei pochi posti di accoglienza solidale disponibili. Magari sono sulla sedia a rotelle. Il presidente emerito della Consulta Flick sostiene che dinanzi a un simile orrore il carcere va riconsiderato come estrema ratio. Sono totalmente d’accordo con l’affermazione del presidente Flick. Totalmente. La Costituzione parla di funzione della pena, non cita mai il carcere. Ci si ricordi che la flessibilità della pena è una cosa meravigliosa: permette a un fatto brutto qual è un reato, che causa dolore, di essere sanato sotto forma di riconciliazione. Ma è possibile se non ci si limita a concepire la pena solo in termini repressivi, retributivi. Altrimenti, anziché farne la cura di una ferita, la si riduce a mero differimento della possibilità che la persona colpevole torni a circolare per strada. Il carcere deve contenere solo gli individui socialmente pericolosi. La Lega continua a dire che le pur blandissime norme del Cura Italia sui domiciliari sono un favore ai boss. Posso solo ricordare che nessun boss potrà uscire: né sulla base delle norme da poco introdotte e neppure con l’interpretazione estensiva della disciplina preesistente. I meccanismi preclusivi non sono stati toccati. Presidente, ma come si fa a lavorare senza perdersi d’animo in mezzo a questa tragedia? Vede, prima mi ha chiesto del carcere come estrema ratio. Si tratta di riscoprire un’idea, un principio giuridico, che già esiste. E dobbiamo farlo. Dobbiamo. Qui a Milano ci battiamo in tutti i modi. Ma nonostante il coronavirus, ancora continuano a entrare in cella persone con residui di pena molto bassi. Si capisca, lo si capisca davvero, che siamo di fronte a una tragedia. E che il Covid in carcere è una tragedia nella tragedia. Ci si ricordi che ci sono valori di solidarietà e uguaglianza in grado di orientarci sempre. Non perdiamoli mai di vista.