In tempi di Coronavirus di cos’altro avere paura se non di ciò che evoca l’espressione: “la nostra vita non sarà mai più come quella di prima”. Che non sia più “come quella di prima” è un’ovvietà banale, riconducibile all’esperienza pratica di ognuno, per come relazionata con il dover far fronte a un’eccezionale progressione di divieti sempre annunciati in piena notte; è in quel “mai più” che, invece, si annida l’allarme per un rischio più pericoloso di quanto non lo sia l’ignobile COVID 19. In queste condizioni un altro virus torna sempre a manifestarsi, e non a caso lo fa accompagnato da inni, marcette e uniformi. Si affaccia pian piano, mostrandosi dapprima discreto e lusinghiero, quando anche non protettivo; fin quando non prende deciso le nostre anime, indebolite dalla tirannia del conformismo, dell’istintivo adeguamento e dall’obbedienza alla paura. Lentamente intacca la capacità di ognuno di valutare le cose del mondo, impedendoci di scorgere la lenta corrosione delle libertà fondamentali. Come sempre quando bisogna far fronte a una crisi, ci si affida a regole eccezionali e al loro generale rispetto. Il rischio che ne deriva, però, è che questo diritto – anche una sola parte di esso - possa diventare ordinario in una condivisa emergenza permanente. In questi casi dobbiamo tenere sempre fermo il fatto che se può esserci un diritto della crisi questo non deve mai essere confuso con una giustizia della crisi. Stiamo vivendo una difficile condizione impostaci che non è giusta, né mai lo sarà. E’ un sacrificio al quale ci sottoponiamo responsabilmente e che dovrà finire presto. In questo momento però, oltre a rispettare le regole, non dobbiamo mai abbassare la guardia. Agli intellettuali spetta allora il compito di tenere questa difesa, facendolo in ogni modo utile a mantenere alta l’asticella dell’attenzione, affinché dalla crisi non nasca un “nuovo Stato” che pretenda di disciplinare non solo l’azione di tutti, ma anche il pensiero. Leggendo con calma e attenzione l’articolo di Eduardo Cicelyn, che ha fatto tanto rumore e scandalo in chi l’ha interpretato come un’irresponsabile istigazione alla disubbidienza, ne ho cercato l’essenza parendomi di trovarla in un duro ammonimento rivolto ai “sovrani dello stato di emergenza” facendolo da una Città che pure dovrebbe ancora sentire per l’aria il timbro denso e vibrante del suono proveniente dalle parole del suo Grande Filosofo: la libertà non è mai garantita o assicurata una volta per tutte, essa conosce “retromarce” e per essere mantenuta necessita sempre di nuova forza vitale. Un rischio che Cicelyn, con un piacevole ritmo espressivo, ha richiamato come derivante dal fatto che questa condizione è sicuramente capace di annientare la forza collettiva contro l’oppressione, col pericolo che qualcuno ne possa agevolmente trarre vantaggio. L’ha fatto analogamente a quanto ha scritto Michel Onfray per la Francia, segnalando la minaccia che qualcuno possa accorgersi che c’è un potere tutto da conquistare e, dunque, ne approfitti.

Quindi, nessuna istigazione alla ribellione in quel pensiero, ma il richiamo alla coscienza di ognuno di noi a mantenere la forza necessaria a imporci contro questo lento ma presente annientamento, affinché la nostra vita torni presto a essere esattamente com’era quella di prima.