I familiari dei detenuti reclusi alla Sezione di Alta sorveglianza del carcere di Voghera continuano ricevere telefonate dei loro cari in quarantena, preoccupati di una eventuale diffusione del contagio. Come già riportato da Il Dubbio, alla notizia del contagio i detenuti reclusi nel reparto As3 del settimo piano hanno protestato pacificamente, tanto poi da ottenere la possibilità di telefonare giornalmente ai familiari. Sicuramente per ora c’è un black out: diversi avvocati hanno mandato una pec per chiedere spiegazioni, ma finora non hanno ottenuto alcuna risposta. Dare delle comunicazioni sarebbe opportuno per rasserenare gli animi che sono, comprensibilmente, agitati.

Intanto il detenuto affetto da coronavirus è ricoverato al San Paolo di Milano. Sono passati giorni e ancora i familiari non hanno avuto l’autorizzazione di poter comunicare con i medici per conoscere le sue condizioni. I legali hanno anche fatto istanza al Gip di Catanzaro per avere la possibilità di effettuare colloqui via Skype, sottolineando la disponibilità dei familiari nel donare un Pc o un tablet da mettere a disposizione per i pazienti del reparto ospedaliero. Ad oggi ancora nessuna risposta.

Il detenuto è entrato in carcere – in custodia cautelare – a dicembre scorso. L’uomo aveva parlato con i familiari lamentando di stare male, poi il ricovero presso l’ospedale civile cittadino. All’esito del tampone, poi trasferito all’ospedale milanese per la sua positività al Covid- 19. Il suo legale spiega a Il Dubbio che hanno chiesto una relazione dalla direzione, ma finora ancora nulla.

«Le carceri sono sovraffollate – spiega l’avvocato Giuseppe Alfi del foro di Perugia e uno dei legali del recluso affetto da coronavirus - e la probabilità che possano verificarsi casi di contagio all'interno degli istituti penitenziari è elevata ed è da evitare in tutti i modi, anche perché si rischia di farli diventare dei lazzaretti. La cosa però più vergognosa da denunciare è che, questo mio cliente è stato male per due giorni con febbre altra e problemi respiratori senza essere preso in cura dal personale medico del carcere».

Prosegue ancora il legale: «Gli agenti penitenziari, non sapendo cosa fare e soprattutto non per colpa loro, avrebbero fornito al cliente della semplice tachipirina e dopo 4 giorni in queste condizioni sarebbe stato ricoverato presso l'ospedale San Paolo di Milano. A questo punto – si chiede l’avvocato Alfi - mi domando come è possibile che in un carcere dove i detenuti sono tenuti lontano dalla società sia stato possibile un contagio, soprattutto considerando che il detenuto non vedeva i propri parenti dal 15 di febbraio».

L’avvocato lamenta il fatto che l’uomo «è stato ricoverato senza avvertire familiari e gli avvocati. I familiari hanno avuto notizia del ricovero solo perché, preoccupati di non aver ricevuto la telefonata programmata del proprio parente hanno chiamato il carcere e dopo aver insistito per avere informazioni sono stati notiziati del ricovero». Infine il legale fa un appello al ministro della Giustizia e al presidente del Consiglio l'appello «affinché nell'ottica di evitare possibili contagi si evitino gli affollamenti negli istituti penitenziari concedendo gli arresti domiciliari ed assicurando una forte presenza di cure ed assistenza medica ai detenuti».

Intanto in altre carceri ci stanno pensando i magistrati di sorveglianza in sinergia con i direttori degli istituti. C’è l’esempio del carcere di Brescia dove hanno giocato di anticipo rispetto al governo. La direttrice Francesca Lucrezi si è mossa in autonomia già da qualche settimana fa, facendo istruire - in accordo con la magistratura di sorveglianza – già le pratiche per chi ha i requisiti per la detenzione domiciliare. Alcune difficoltà però le ha incontrate. Quali? La mancanza dei braccialetti elettronici. A pensare che, secondo la relazione tecnica del governo, i braccialetti già c’erano. O forse no?