Il dibattito intorno agli effetti del coronavirus durerà per anni su tre temi ( tra gli altri): il conflitto tra autoritarismo e democrazia, l’immagine dell’Italia, la globalizzazione Anticipiamolo in estrema sintesi, con qualche piccolo spunto e senza certezze, come è naturale su un quotidiano che si chiama “il dubbio”.

Autoritarismo e democrazia. Mentre l’Occidente soffre ( e l’Italia più di tutti), la Cina comincia forse a riprendersi: il 4 febbraio infatti aveva registrato 3.887 nuovi casi, contro gli 8 del 12 marzo. Pechino è il simbolo mondiale dell’autoritarismo, volutamente si contrappone alle democrazie ( e viceversa). Un eventuale successo sarà quindi usato a dimostrazione della superiorità del suo sistema. Un sistema totalitario- si diràha saputo sigillare 60 milioni di persone in pratica con una occupazione militare. Ha impedito dissenso e polemiche. Ha mobilitato risorse enormi e una propaganda martellante. L’individuo è schiacciato da regimi come quello cinese che però, proprio per questo, si dimostrano più efficienti delle democrazie. Anche per la ripresa economica, l’autoritarismo cinese potrebbe disporre di armi più valide. Non dovrà rispettare il libero mercato, le regole e i diritti sindacali. Né considererà un tabù l’intervento pesante dello Stato. Deng Xiaoping diceva che non importa se il gatto è bianco o nero: basta che prenda il topo. Il topo fino a ieri è stato preso dal libero mercato selvaggio. Se sarà necessario, Pechino userà una economia militarizzata di Stato e il gatto cambierà colore.

Questi sono gli argomenti di chi sostiene l’autoritarismo, naturalmente. Si può obiettare che proprio la mancanza di democrazia ( quindi di trasparenza e di una libera informazione) ha nascosto a lungo l’epidemia. Sino al punto di censurare e tacitare il medico eroe Li Wenliang ( morto lui stesso) che per primo aveva lanciato l’allarme. Una democrazia avrebbe reagito prima e in tempo.

Si può anche osservare che il successo della Cina, più che dal sistema politico, nasce dalla enormità delle sue dimensioni: un miliardo e mezzo di persone, un “continente Stato” in grado di muovere risorse umane e materiali come nessuno al mondo.

E’ uscito recentemente un libro- dibattito tra il più famoso politologo cinese Zhang Weiwei e il professor Fukuyama ( forse il più famoso tra gli americani). L’uno paladino dell’autoritarismo, naturalmente, l’altro del liberismo e della democrazia occidentale. “The China wave” ( l’onda cinese) è un libro di straordinario interesse ( purtroppo non ancora tradotto in italiano) che già imposta il dibattito tra due concezioni del mondo con argomenti spesso nuovi e sorprendenti. Si può essere certi che la prossima puntata avrà tra I protagonisti il virus.

L’immagine dell’Italia. Sulla stampa internazionale, da molto tempo, si usa a propo- sito del nostro Paese il termine the sick man of Europe. La metafora si riferisce al fatto che siamo il malato l’Europa ( e d’Occidente) sul piano economico ( per l’enorme debito e la scarsa produttività) ma anche politico, perché soltanto da noi il populismo ha portato a una maggioranza assoluta in Parlamento di M5S e Lega: populismi di segno opposto, ora alleati e ora nemici, ma pur sempre populismi concorrenti. La metafora dell’Italia sick man da anni viene spesso resa più colorita con la sottolineatura che si tratta di un malato contagioso. Perché il nostro debito può infettare e far crollare l’intera area euro e perché il populismo può contaminare le democrazie vicine. D’altronde, storicamente, il fascismo è nato in Italia e si è esteso a tutta Europa. Sciaguratamente, dalla metafora siamo passati alla realtà. Per una beffa della storia, siamo davvero il sick man: malati da debito pubblico, da populismo e adesso anche da coronavirus.

Il danno all’immagine dell’Italia è devastante, anche se il virus ormai sta colpendo tutta l’Europa e tutto l’Occidente. Dovremmo essere pessimisti all’estremo, specialmente in un Paese che vive di immagine e di turismo, ma è ragionevole “il dubbio” che si possa restare fiduciosi. Perché potrebbe anche accadere il contrario. L’Italia infatti è capace di stupire positivamente il mondo, così come è avvenuto ad esempio con il miracolo dell’ultimo dopoguerra: miracolo morale, economico e democratico. Certo il miracolo ebbe come premessa la completa cancellazione di una intera classe dirigente politica. Ma anche questa è una eventualità che oggi non si può escludere. Naturalmente ( così accadde nel 1945) occorrerebbe la premessa di una “operazione verità”. Che dovrebbe basarsi sulle considerazioni più elementari. Vogliamo citarne alcune, rese più autorevoli dal fatto che provengono da una fonte completamente neutrale, perché estranea alla alle nostre polemiche? Ritorniamo allora a Zhang Weiwei. Osserva che l’India partiva da condizioni simili a quelle cinesi, ma si è sviluppato tre volte meno. Perché? Questa volta non contraddetto da Fukuyama, Zhang dipinge un quadro che riguarda l’India, ma che sembra raffigurare alla perfezione proprio noi. A suo parere, le ragioni del fallimento sono cinque, sintetizzate da una doppia P: Politicizzazione estrema e Populismo. E da una tripla S: governo “Soft”, “Short termism” ( incapacità dunque di programmare), “Schism” ( ovvero atteggiamento sempre divisivo e conflittuale).

Le precisazioni di Zhang su queste “P” e “S” colpiscono ancora di più. “Il populismo competitivo assicura più voti, ma sacrifica l’interesse del Paese”. “Pochi politici guardano al di là del proprio mandato o delle proprie immediate esigenze elettorali e in tal modo non è possibile impostare un coerente programma di riforme con un chiaro senso delle priorità e delle scadenze”. L’approccio divisivo “ostacola la volontà di vedere le cose realizzate: se è necessario costruire una importante infrastruttura, questa è inevitabilmente ritardata da polemiche di tutti i tipi”.

Zhang probabilmente ha un concetto esagerato dei suoi compatrioti. Ma aggiunge che sono anche pronti a imparare dal resto del mondo. Al punto che il quotidiano più diffuso è ( con 3.250.000 copie) “Reference News”, che raccoglie gli articoli più interessanti della stampa internazionale. I cinesi non vogliono essere ( secondo il loro antico detto) “rane in fondo al pozzo”. E Zhang descrive queste rane con gli aggettivi che si attagliano in modo impressionante ai politici oggi prevalenti in Italia: “un misto di provincialismo, ristrettezza mentale e compiaciuta presunzione”.

E’ facile per chiunque mettere nomi e cognomi dei politici italiani dietro tutti questi vizi sopra esposti. Ed è possibile sperare che, come tutti i grandi traumi, anche il virus, spesso definito come “una guerra”, ci liberi da una classe politica fallimentare. D’altronde, passata l’emergenza, qualcuno si ricorderà, tra l’altro, che, anziché investire nella sanità, si sono sparsi soldi a piene mani per il reddito di cittadinanza. Che, invece di preoccuparsi della mancanza di medici, si sono distribuiti altri soldi per mandarli anticipatamente in pensione con “quota 100”. Qualcuno si ricorderà i toni delle polemiche penose tra i politici nei giorni più drammatici. In una tempesta sono decisive la rappresentatività e l’esperienza di chi regge il timone. Ma, quanto a rappresentatività, abbiamo un capo del governo mai votato da nessuno. Un movimento che occupa un terzo del Parlamento e che nelle ultime elezioni sta tra il 5 e il 10 per cento. Quanto all’autorevolezza ( sempre frutto anche dell’esperienza) abbiamo al governo molti giovani che non hanno mai lavorato o studiato con successo in vita loro. Guidati da un avvocato brillante, ma sino a due anni fa mai visto né sentito.

La globalizzazione. In prima battuta, il virus spinge alla chiusura verso il mondo. Peggio, al “dagli all’untore”, persino all’interno della stessa comunità nazionale. Meridionali contro i “nordisti” venuti al sud a propagare l’epidemia. Prima abbiamo avuto il “dagli al cinese”, poi il “dagli all’italiano”. Adesso, in America, il “dagli all’europeo” ( ma non all’anglosassone, poiché Trump ha risparmiato la Gran Bretagna dal blocco dei voli). La chiusura e le recriminazioni rischiano di minare le basi del libero scambio. “Comprate italiano” - si sente ( come ai tempi dell’autarchia fascista). Non da sprovveduti, ma da leader come Salvini. Il quale chiede poi contestualmente che l’intera Europa sia dichiarata zona rossa per contrastare l’infame concorrenza sleale di francesi e tedeschi, impegnati a maramaldeggiare contro i poveri esportatori italiani bloccati dall’epidemia.

Mentre tutto sembra chiudersi ( le menti come i confini), c’è però “il dubbio” che presto il virus spinga al contrario ancor più verso la globalizzazione: non solo dell’economia, ma addirittura dell’autorità politica. Dopo l’emergenza clima, si capisce che anche l’emergenza pandemia è globale e richiede come tale una risposta altrettanto globale. Così come per il terrorismo o il fenomeno migratorio. Uno starnuto a Wuhan ha travolto il mondo e la sempre più stretta interconnessione dell’umanità risulta evidente a tutti. La risposta decisa della Cina nasce anche dall’unità dell’autorità politica. Quella esitante dell’Europa dalla divisione tra Stati nazionali chiusi all’interno di frontiere ormai anacronistiche, perché inevitabilmente scavalcate da merci, persone e virus. Soprattutto in Italia, ci si accorgerà che viviamo di globalizzazione più di chiunque altro: esportazione di oggetti da una parte; importazione di persone, ovvero turismo, dall’altra ( per non parlare dei capitali stranieri necessari a finanziare il nostro debito pubblico). Con la chiusura, siamo finiti.

Naturalmente, la partita pro o contro la globalizzazione sarà decisa non dalle parole, ma dalla tecnologia. La rivoluzione tecnologica dei trasporti muove senza barriere, sempre più velocemente, gli uomini e le cose. La rivoluzione di Internet muove le idee e le immagini. Contro Amazon e Ryanair, l’Alta Velocità e Google, i sovranisti e localisti potrebbero avere dal virus un aiuto. Ma assolutamente momentaneo.