“Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera” non è l’incipit dell’ultimo romanzo di un giovane scrittore italiano ma quello famosissimo dell’ opera di Marcel Proust. Senza l’epidemia di tubercolosi dei primi anni del secolo scorso forse non avremmo la “Ricerca del tempo perduto” e probabilmente nemmeno una riga scritta da Kafka. Proust metteva mano ogni notte alla sua cattedrale, tra colpi di tosse, attacchi di asma, spasmi nervosi: segregato dal resto del mondo per la tisi che lo stroncherà poi a 51 anni, e decenni dopo verrà accusato dai materialisti storici di aver alzato un muro tra sé e gli avvenimenti della Grande Guerra, fuggendo dalla realtà e chiudendosi in un pregevole ma onirico microcosmo pre- freudiano. Noi, presunti malati sospesi tra Camus e Boccaccio, costretti a rivalutare l’ozio

“Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera” non è l’incipit dell’ultimo romanzo di un giovane scrittore italiano ma quello famosissimo della famosissima opera di Marcel Proust. Senza l’epidemia di tubercolosi dei primi anni del secolo scorso forse non avremmo la “Ricerca del tempo perduto” e probabilmente nemmeno una riga scritta da Franz Kafka.

Proust metteva mano ogni notte alla sua cattedrale, tra colpi di tosse, attacchi di asma, spasmi nervosi: segregato dal resto del mondo per la tisi che lo stroncherà poi a 51 anni, e decenni dopo verrà accusato dai materialisti storici di aver alzato un muro tra sé e gli avvenimenti della Grande Guerra, fuggendo dalla realtà e chiudendosi in un pregevole ma onirico microcosmo pre- freudiano.

Kafka convisse con la tisi prima di soccombere a 41 anni, lasciando incompiuto “America” che è forse il suo romanzo più bello, l’unico nel quale spiri il soffio della speranza e della fiducia nella vita: il suo rapporto con la malattia aveva qualcosa di psichico e di intimo, come fosse il riflesso inevitabile dei suoi fallimenti personali, come fosse una versione a misura di individuo delle catastrofi naturali e delle pandemie che in tutta la Bibbia son raccontate come fulmini del divino.

Thomas Mann era invece sanissimo, osteggiava il nazismo - la peste del suo tempo- contro il quale si batté e al quale sfuggì, ma nessuno come lui ha narrato la malattia come mondo concluso, separato dalla vita e dall’operoso lavorìo umano, e come percorso verso la fine qual è poi la vita stessa: la malattia come “forma impudica della vita”, per stare alla “Montagna incantata”.

Sono solo alcuni esempi dei molti possibili, mentre non mi capacito della corsa che gli italiani pare abbiano intrapreso mettendosi sul comodino il bellissimo “La peste” di Albert Camus, che è invece una metafora della guerra. Né riesco a immaginare che gli scapestrati in fuga dal coronavirus delle Zone Rosse se ne siano andati nelle seconde case al mare e ai monti per far quello che il Boccaccio fa fare ai suoi ospiti nel Decamerone: narrare storie in tempo di peste, in attesa che passi. Epidemie e cataclismi sono stati un formidabile motore della Storia umana, e noi che viviamo in questi primi decenni del XXI secolo ci eravamo forse inconsapevolmente illusi di aver battuto gli uni e l’altra.

Ci ritroviamo invece qui, in un’epidemia davvero mondiale, la prima e speriamo unica nostra contemporanea. Siamo nel tempo sospeso e obbligato dell’ # iostoacasa. E adesso? Che facciamo noi, noi che non abbiamo la luminosa vitalità della reverie proustiana, noi che non siamo Kafka né Mann e nemmeno l’ultima promessa della narrativa italiana, come possiamo reagire, cosa possiamo fare durando l’eccezionalità del coronavirus?

Occorre una straordinaria autonomia intellettuale per far lavorare il tempo. Per far sì che il tempo sospeso dell’ # iostoacasa lavori produttivamente per noi stessi. Scrivere può essere naturalmente un’idea: si dice che ogni italiano conservi un libro nel cassetto - una specie di battuta che gira da secoli nelle case editrici- e scrivere può certo alleviare l’ansia da stress per Covid19 molto più che leggere. Intanto, è un modo per riflettere con se stessi “ad alta voce”, ovvero con voce ferma e argomenti razionali. Una via per il “conosci te stesso” degli antichi, persa nelle nevrosi quotidiane. Poi naturalmente si può leggere.

Una mia amica molto razionale e brillante, nonché grande lettrice, mi ha fatto notare che però usare per leggere l’improvviso e perfetto vuoto che il coronavirus ha centrifugato nelle nostre vite potrebbe rivelarsi più complesso del previsto, anche per chi con i libri ha consuetudine: da stressati, può accadere che provochi il crollo dell’attenzione, che si finisca per trovare difficile essere proattivi su tutto ciò che non è Covid19, che è poi proprio la causa dello stress. Se capita questo, però, abbiamo i mezzi perfetti per viaggiare in un’altra storia: film, serie televisive, e anche vecchissimi adorabili sceneggiati. E la musica, naturalmente. ggi si può fare e condividere ( to share) tutto a distanza, cosa che presentava fin qui un problema noto agli studiosi: lo sharing è virtuale, la condivisione immaginaria, i bipedi della specie umana son fatti di carne e ossa, il contatto dev’esse fisico oppure la vita reale se ne resta altrove. Il paradosso di questa epidemia globale che pone il divieto alle strette di mano e all’irruzione di qualunque contatto fisico è che accentua gli effetti collaterali della vita che già viviamo: già su questo ci sarebbe da riflettere, e a lungo.

Non spariremo come dinosauri colpiti da un meteorite e tutto quel che viviamo oggi, in un tempo che potrà anche sembrarci lunghissimo, a un certo punto sparirà. Ma questo tempo in cui siamo può essere utile per interrogarci. Togliendoci non poche libertà, ci lascia molto tempo libero. Gli hobby di ciascuno sono la via migliore per viverlo. Fare quel che si fa in genere le notti in cui si ha la rara fortuna di poter rimanere da soli, nel pieno silenzio. Ricordando però che il primo motore immobile di ogni idea, di ogni atto creativo, è proprio quello che ci hanno proibito e insegnato a combattere. L’ozio.