Passerà anche questo virus, ma non passerà la malattia di allontanare i giudici dagli avvocati.

Nel civile ormai impera la telematica e le cancellerie sono terreno vietato o quasi per chi non è dipendente del Ministero.

Per tutti gli altri, legali compresi, esistono sportelli, chiamati con l’acronimo di U. R. P. ( che a me ricorda un’esclamazione dei fumetti) o con l’orrendo termine inglese di “front office” ( l’italiano è in quarantena).

Nel penale la voglia di prendere le distanze, con la scusa della tecnologia ha cominciato a farsi strada con i processi a distanza, dove l’imputato o l’arrestato sono collegati in diretta skype.

Certamente la tecnologia è una benedizione, un aiuto e un progresso. Tuttavia non è una panacea e soprattutto non è l’equivalente della presenza fisica delle parti e dei loro difensori che di ogni processo costituiscono l’essenza.

Il processo penale moderno nasce con l’ Habeas corpus e rischia di finire con le teleconferenze ove il corpo del reo è una vaga ombra catodica, soggetto però all’esito del giudizio a pene tutt’altro che virtuali.

Il processo è fatto di parole, scritte e dette, ma anche di sguardi.

Quello che l’avvocato muove verso il giudice chiedendo attenzione e comprensione; quello che il Pubblico ministero configge verso i testimoni quando divagano.

Quello ancora più essenziale dell’imputato verso il suo difensore quando la Corte esce dalla Camera di Consiglio e cerca in un battito di ciglia la traduzione del verdetto in termini semplici.

Il processo è fatto di odori: quello della carta dei fascicoli, che si ammassano sul banco dell’accusa, quasi a voler creare una valanga accusatoria e quello dei testimoni, che nella piccola stanza del giudice civile dicono con il loro sudore e con il loro aspetto molte più cose sulla verità dei fatti che mille verbalizzazioni sommarie.

Il processo si gusta e si tocca, come la tensione che rende pesantissima l’aria di certe attese, di decisioni, ma anche di inizi, di quando lo scalpiccio dei piedi del cancelliere, anticipa l’arrivo trafelato del giudice.

Come ogni evento non solo razionale ma anche emotivo, il processo non si può, salvo casi ben definiti, giocare a porte chiuse, nelle camere di consiglio o peggio attraverso le camere video.

Il processo è un atto che coinvolge tre persone, ci ricordano, lontani nel tempo ma presenti nei concetti e nella grammatica processuale, i romani.

E le persone sono fatte di carne e di ossa, di paure e di sfrontatezza, di abiti dimessi o sgargianti.

Il processo, con i suoi riti e le sue liturgie, incide nella vita e la vita non ammette distanze.