Nei giorni scorsi, su queste pagine, Pino Pisicchio ha spiegato da par suo le ragioni che fanno del referendum del 29 marzo sul taglio dei parlamentari un “prodotto frettoloso e, addirittura preterintenzionale”. Frettoloso, perché non mette nel conto i gravi problemi di rappresentanza e di funzionamento del Parlamento. Preterintenzionale, perché, a dispetto di quel che si pensa, e di quel che dicono i grillini, non è affatto vero che lo nostra sia la democrazia più costosa del mondo e che negli altri Paesi i parlamenti siano meno numerosi del nostro.

Insomma, Pisicchio ha dichiarato le ragioni del No ad un referendum che suona come l’ennesimo assalto dell’antipolitica alle Istituzioni nel segno di una furia iconoclasta e distruttrice che non sembra arrestarsi. Ebbene, confesso di aver anch’io tanta voglia di schierarmi per il No. E non soltanto per le pur evidenti questioni sollevate da Pisicchio, quanto per una istintiva ripulsa verso un metodo goffo, irresponsabile, assurdo di saccheggiare la Costituzione e picconare alcuni pilastri portanti della struttura organizzativa dello Stato a colpi di riforme che, invece di risolvere i problemi, finiscono inevitabilmente con l’aggravarli.

Nel crollo della prima Repubblica ci si illuse che le colpe fossero tutte di un ceto politico corrotto e che, nella contrapposizione tra quel ceto e la società civile, fosse quest’ultima, con le sue implicite virtù, il giusto antidoto al malaffare e al malgoverno. Con l’avvento della seconda Repubblica, se davvero è mai nata, nessuno credo nutra più quell’illusione. Semmai ci si interroga sul degrado che, dopo la politica ( e per colpa della politica) invischia le istituzioni, privandole di senso e di autorevolezza, riducendole ad inutile orpello di una democrazia che non ha più né capo né coda.

Nello spaesamento collettivo in cui siamo irrimediabilmente precipitati si fatica a trovare un filo, una chiave che aiuti a risalire la china. Si procede a tentoni nella notte buia della politica. Senza nesso, senza logica. Si insegue l’istinto “popolare”, con il suo virulento portato di rancore, tanto più forte quanto più profondi sono i segni della crisi economica e sociale che, da più di un decennio, ha prodotto sanguinose stigmate nel corpo esausto della nazione.

Ecco, il metodo delittuoso con cui, non da oggi, purtroppo, si mette mano alla Costituzione, risponde per molti versi a questa miserevole forma in cui è ridotta la politica nostrana. Si dirà: chi in passato ha tentato altre strade, dalla riforma Bozzi in poi, ha fallito. Tanto vale, allora, procedere per gradi: un colpetto di qua, un colpetto di là, e lo smantellamento dei privilegi castali è servito su un piatto freddo. In fondo, se chiedi agli italiani di ridurre il numero dei parlamentari, chi si opporrebbe? Nel nome del populismo imperante il ragionamento ( ammesso che di ragionamento si tratti e non di semplice spirito vendicativo) non fa una piega.

Si può essere di destra o di sinistra, ammesso che ancora si riesca a dare un significato a queste due opzioni, su una cosa dovremmo tutti convenire: una riforma costituzionale degna di tal nome dovrebbe avere una sua organicità interiore. Essere il portato di una visione complessiva dello Stato, dei suoi organi, dei relativi poteri. Aggiornare il quadro costituzionale appare certamente urgente quanto riorganizzare le forme del consenso e della rappresentanza. Ma farlo a strattoni e in maniera schizofrenica è il portato di una follia che produrrà, a cascata, altri danni.

Ricordate la riforma del titolo V della costituzione? Spacciata per l’anticamera del federalismo e il chiavistello per affermare il principio della sussidiarietà istituzionale, ha procurato non pochi problemi, tra cui quello delle cosiddette materie concorrenti tra Stato e regioni, con aggravio di onere interpretativo a carico della Consulta. Il legislatore avrebbe dovuto, con cognizione di causa e competenza, riordinare il sistema dei poteri locali, evitando una iper- regionalizzazione che ha finito con l’accentuare il divario tra Nord e Sud, favorendo infine la crescita di una domanda di “federalismo differenziato” sul quale non é facile individuare un livello di equilibrio che non mortifichi le regioni più deboli a favore di quelle meglio attrezzate in termini di servizi al cittadino.

Insomma, ogni qual volta si è messo il piede sull’acceleratore senza sapere esattamente dove indirizzare la macchina, si è finiti contro un muro. Eppure, tutto, ma proprio tutto, dovrebbe spingerci a superare questa sorta di mito incapacitante nel quale annaspa il “paese del pressappoco”, tratteggiato con amara ironia in un libro di Raffaele Simone di qualche anno fa. Un paese in perenne galleggiamento su un vuoto in cui rischia di precipitare.

Ci vorrebbe una inversione di tendenza, prima che sia troppo tardi. Partendo, per esempio, da una Assemblea costituente. Un centinaio di “saggi” cui affidare la riscrittura della seconda parte della Costituzione non dovrebbe essere difficile trovarli. Una definizione chiara di un modello di Repubblica ( presidenziale o semipresidenziale), dei poteri dell’esecutivo e del parlamento ( superando il bicameralismo perfetto), degli organi ausiliari dello stato e di quelli locali. Questo sì aprirebbe una stagione riformatrice autentica, elevando il dibattito politico verso l’alto. In un confronto che cancelli mediocrità e becerume. Altro che taglio dei parlamentari.