Milano è Milano. Ma Napoli è Napoli. Sempre. Lo capisci se entri nella Biblioteca di Castelcapuano. Sembra d’oro massiccio. Invece sono libri, dorsi di “cinquecentine” preziosissime. Un tempio, una cattedrale del sapere nella città che può considerarsi tra le capitali della scienza giuridica. Milano è Milano perché lì tutto è iniziato, compresa Mani pulite, ed era forse fatale che il conflitto fra Piercamillo Davigo e l’avvocatura giungesse al suo esito più estremo con l’uscita dei penalisti milanesi dall’aula dell’anno giudiziario quando ha preso la parola l’ex pm del “Pool”. Ma Napoli è Napoli perché se si legge la delibera approvata lo scorso 3 febbraio dal Consiglio dell’Ordine forense partenopeo ci si accorge che, dopo la durezza dei toni sfoderati contro le scomuniche davighiane all’avvocatura ( dalla “tassa” sui ricorsi in Cassazione al forfait per retribuire il patrocinio a spese dello Stato ed evitare che il difensore proponga «atti inutili per incassare di più»...), si arriva al seguente finale: “È per tali motivi che il Consiglio dell’Ordine di Napoli invita il Dottor Piercamillo Davigo a un confronto diretto da tenersi nel pieno contraddittorio, finora violato”. Non si chiede l’impeachment. Si dice: vieni che parliamo.

Così si è arrivati all’incredibile giornata dell’altro ieri pomeriggio nella biblioteca delle meraviglie di cui sopra, a Castelcapuano. Nella sala delle cinquecentine dorate martedì c’erano qualcosa come 500 persone, forse più, avvocati ma non solo. Il presidente del Coa Antonio Tafuri è riuscito a convincere Davigo a prendere sul serio l’invito di quel verbale: «Gli ho inviato la delibera per mail e lui ha accettato volentieri», spiega il presidente degli avvocati partenopei. Certo, se a Milano erano usciti dall’aula magna, a Napoli Tafuri e gli altri consiglieri si erano presentati nell’altrettanto solenne Sala dei Baroni con le manette ai polsi. Il derby Milano- Napoli è sempre ad alti livelli. Ma di alto livello, non foss’altro per aver saputo restituire la distanza reale, ontologica fra avvocatura e Davigo, è stato anche il dibattito napoletano di due giorni fa su “Riforma e ragionevole durata del processo penale”. Tafuri lo ha introdotto così, con parole chiare: «È sempre meglio parlarsi mentre ci si guarda negli occhi». E c’è un’altra sua notazione, che con lungimiranza coglie il senso ultimo del contrasto fra il presidente della seconda sezione penale della Cassazione e il mondo forense: «Il sistema penale assegna all’avvocatura una condizione paritaria rispetto all’accusa. E la parità nel contraddittorio a nostro giudizio deve valere anche per i convegni». Ecco perché per gli avvocati napoletani era importante invitare proprio chi, come Piercamillo Davigo, è così scettico sul modello processuale accusatorio che ha stabilito proprio quella parità.

DAVIGO E IL RIMPIANTO PER L’INQUISITORIO

Certo la sfida è impari sul piano ambientale. Ovvio che in platea non manchino i magistrati, ma la controparte processuale, cioè gli avvocati, sono altrettanto inevitabilmente in netta maggioranza. E nei momenti più aspri della temeraria, e a suo modo coraggiosa, requisitoria di Davigo, rumoreggiano, non senza motivo. Una cosa appare evidente: il togato del Csm non ama l’eccezionalità della giustizia e della Costituzione italiana. «Una prescrizione quale la nostra esiste solo in Grecia. Vorrà dire qualcosa se in Germania non c’è, non c’è negli Stati Uniti e neppure in Francia, che è la culla dei diritti umani? O dobbiamo pensare che gli altri sono tutti barbari». A Davigo non suona, evidentemente, che processi lunghi come i nostri richiedano un argine, ma neppure che il robusto impianto delle nostre garanzie custodisca una sapienza e una civiltà superiori. Rimpiange il modello inquisitorio, Davigo, anche se non lo dice mai. «Hanno cancellato l’introduzione del pm che consentiva al giudice di farsi un’idea, e di poter capire ad esempio chi, nelle fluviali liste di testimoni, servisse davvero al processo». Come a dire che gli avvocati hanno sempre il modo di far perdere tempo persino quando il tempo è in mano al giudice. E del fatto che la prova debba rivelarsi nel contraddittorio fra le parti, e non da una traccia segnata preventivamente dall’accusa, non interessa.

Il professor Vincenzo Maiello, colonna della Federico II ma anche delle battaglie dell’Unione Camere penali, decostruirà poco dopo gran parte delle accuse di Davigo al codice Vassalli. Il punto è che, pressato dal brusio avverso e da un clima oggettivamente da trasferta, il togato infila qua e là qualche passaggio davvero urticante per gli avvocati. Che, dice, «quando si comportano correttamente ci aiutano a non sbagliare». Apriti cielo: come se di prassi fossero dei treccartari. Siamo sempre lì. Il clima si arroventa del tutto quando il consigliere Csm sostiene che «le sanzioni europee per il trattamento inumano nel nostro sistema penitenziario sono nate anche dai discutibili parametri seguiti dall’Italia nel calcolare lo spazio medio per detenuto, assimilato a quello delle private abitazioni. È vero che alcune nostre carceri sono sovraffollate e cadenti, ma sul piano generale il significato dei dati è stato alterato». Rivolta in platea. Ma Davigo, con una fermezza di approccio che, vale la pena ripeterlo, è comunque da apprezzare, si chiede «come mai vogliano restare da noi anche i detenuti stranieri provenienti da quei Paesi con i quali pure esisterebbe l’accordo per il rimpatrio: succede con l’Albania, per esempio». Il brusio rischia di trasformarsi in invettiva: certo non ci si può consolare se le galere del terzo mondo sono persino peggiori delle nostre.

Ma a parte passaggi del genere che suonano davvero come provocazioni, Davigo finirà per spostarsi più sul discorso general comparativo che sul terreno delle riforme contingenti, preferito invece non solo da Maiello ma anche dagli altri interlocutori. Il consigliere Csm cita un esempio dell’ordinamento francese censurato dalla Cedu per ricordare che «una vittima non può avere solo il diritto al risarcimento civile, secondo Strasburgo vanta anche quello di veder punito il suo carnefice». Ma è nel pretendere una comparazione con «il processo civile, in cui la prescrizione non interviene» che affiora la sottovalutazione di una potestà punitiva pubblica senza limiti e perciò autoriaria. Davigo insiste sulla prima sentenza Taricco, e sottovaluta troppo la seconda, per dire che «dobbiamo guardare anche lontano da noi, quando insistiamo nel considerare la prescrizione immodificabile». E qui a scorgere la chiave più illuminante è il giornalista chiamato a governare l’eccellente dibattito, non un moderatore qualsiasi: il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano.

Che, dopo aver citato Toqueville e Bobbio, ricorda quanto sia «a volte fuorviante l’ispirazione a modelli stranieri: il Giappone è il Paese col senso civico forse più sviluppato al mondo ma, storia di pochi giorni fa, è ancora capace di eseguire condanne a morte dopo aver tenuto 40 anni una persona dietro le sbarre». Ci vorrebbe più amore per la giustizia italiana, per quanto impegnativa ed estenuante possa essere. Chissà che gli avvocati, magari proprio gli avvocati di Napoli, non abbiano aperto una breccia nel cuore dell’irriducibile Davigo.