Può un professore difendere la propria Università? L’indipendenza e la terzietà sono qualità professionali, solitamente richieste ai giudici. Sono però patrimonio comune di tutti i protagonisti della giurisdizione. Spesso lo dimentichiamo ma anche noi avvocati abbiamo il dovere dell’indipendenza. Quando si parla di indipendenza dell’avvocato, il più delle volte si pensa subito al rapporto con i poteri e siamo abituati a considerare l’indipendenza come un diritto, se non un privilegio che lo Stato o chi per esso, deve rispettare e proteggere. L’indipendenza invece è anche e, soprattutto, un dovere nei confronti dei clienti. È un principio difficile da ricordare in tempi di crisi come quella attuale. Ma è l’essenza stessa della nostra libertà professionale.

Ce lo ricorda una recentissima sentenza della Grande Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ( Cause riunite C- 515/ 17 P e C- 561/ 17 P, Uniwersytet Wroclawski/ REA), pronunciata il 4 Febbraio ultimo scorso.

Il caso è singolare, anche perché è ciò che comunemente accade anche in Italia, senza che susciti grande scandalo. Un’Università aveva fatto ricorso contro alcuni atti di un’agenzia esecutiva dell’Unione Europea rivolgendosi al Tribunale di primo grado, affidando la propria difesa, come comunemente accade anche in Italia, a un professore facente parte del proprio corpo docente.

Vediamo più specificatamente i fatti. Nell’ambito di un programma di ricerca, l’Agenzia Esecutiva per la Ricerca ( la REA) stipulò con l’Università di Breslavia una convenzione di sovvenzione. L’Università si rendeva inadempiente e la REA risolveva il contratto. L’Università impugnava tale provvedimento di fronte al Tribunale UE. Il Tribunale ha dichiarato con ordinanza ( T 137/ 16) irricevibile il ricorso per il motivo che il professionista, che rappresentava l’Università, non soddisfaceva il requisito dell’indipendenza posto dall’art. 19 dello Statuto della Corte UE. Secondo il Tribunale, un professore non può difendere la propria Università, in quanto difetterebbe dell’indipendenza e della terzietà che un avvocato deve avere ai sensi dell’articolo citato.

Cicero pro domo sua oggi sarebbe vietato. La Corte, però, investita in seduta plenaria in grado di appello è stata di diverso avviso e ha riformato l’ordinanza, stabilendo che non può essere equiparata a situazioni di subordinazione quella in cui «il consulente giuridico non solo non si occupava della difesa degli interessi dell’Università di Breslavia nell’ambito di un vincolo di subordinazione con quest’ultima, ma, inoltre, era semplicemente legato a tale Università da un contratto avente ad oggetto incarichi di docenza». Secondo la Corte, un tale legame non è sufficiente a far ritenere che il consulente giuridico in parola si trovasse in una situazione manifestamente lesiva della sua capacità di difendere al meglio, in piena indipendenza, gli interessi del suo cliente. Questa la decisione finale. In motivazione però, ha ampiamente motivato, richiamando severamente il dovere di indipendenza e terzietà anche nei confronti del cliente.

Leggiamo la Corte a tale riguardo, dal tenore letterale dell’articolo 19, terzo comma, dello Statuto, e in particolare dall’uso del termine «rappresentate», risulta che una «parte», ai sensi di tale disposizione, qualunque sia la sua qualità, non è autorizzata ad agire in prima persona dinanzi ad un organo giurisdizionale dell’Unione, ma deve ricorrere ai servizi di un terzo. Tale considerazione risulta avvalorata dallo scopo della rappresentanza, tramite un avvocato. A tale riguardo, occorre sottolineare che, se è vero che l’incarico di rappresentanza da parte di un avvocato quale previsto all’articolo 19, terzo e quarto comma, dello Statuto deve essere esercitato nell’interesse della buona amministrazione della giustizia, lo scopo di tale incarico consiste soprattutto, nel tutelare e nel difendere al meglio gli interessi del mandante, in piena indipendenza nonché nel rispetto della legge e delle norme professionali e deontologiche. Come ha giustamente ricordato il Tribunale al punto 19 dell’ordinanza impugnata, la nozione di indipendenza dell’avvocato, nel contesto specifico dell’articolo 19 dello Statuto, è definita non soltanto in negativo, vale a dire nel senso di mancanza di un rapporto d’impiego, ma anche in positivo, ossia mediante un riferimento alla disciplina professionale ( v., in tal senso, sentenza del 6 settembre 2012, Prezes Urzedu Komunikacji Elektronicznej/ Commissione.

In tale contesto, il dovere di indipendenza che incombe all’avvocato va inteso come l’assenza non già di qualsiasi legame con il proprio cliente, bensì di legami che pregiudichino manifestamente la sua capacità di svolgere il proprio incarico difensivo servendo al meglio gli interessi del cliente. Non può tuttavia essere equiparata a situazioni del genere quella di cui trattasi nel caso di specie, in cui, come risulta dall’ordinanza impugnata, il consulente giuridico non solo non si occupava della difesa degli interessi dell’Università di Breslavia nell’ambito di un vincolo di subordinazione con quest’ultima, ma, inoltre, era semplicemente legato a tale Università da un contratto avente ad oggetto incarichi di docenza.

Ne consegue che il Tribunale, nel dichiarare, al punto 20 dell’ordinanza impugnata, che la semplice esistenza, tra l’Università di Breslavia e il suo consulente giuridico nell’ambito del ricorso in primo grado, di un contratto di diritto civile vertente su incarichi di docenza poteva influire sull’indipendenza di tale consulente a motivo dell’esistenza di un rischio che il parere professionale di detto consulente fosse, almeno in parte, influenzato dal suo ambiente professionale, ha commesso un errore di diritto. Che dire? Quando si parla dell’ Europa, spesso ci dimentichiamo che l’Unione Europea ci ricorda, non solo il rigore finanziario e contabile, ma anche i principi base di un vivere civile. Principi troppo spesso dimenticati.