Una militanza politica di lungo corso, quella di Franco Corleone che ha appena concluso il suo mandato da Garante regionale dei detenuti della regione Toscana. È stato senatore fin dall’ 87, poi dal ‘ 96 è stato sottosegretario alla Giustizia per tutta la durata dei governi Prodi 1 e D’Alema. Una legislatura dove sono state partorite molte leggi a favore del sistema penitenziario e giudiziario. L’attenzione di Corleone, in particolare, è stata incentrata sui diritti dei detenuti e ha lottato per rendere le carceri più vicine possibili al dettato costituzionale. Non a caso, fin dagli anni 70, ha sostenuto con forza quelle formazioni politiche che lottavano per lo Stato di Diritto e non è un caso che si iscrisse al Partito Radicale. In Parlamento, a fine anni 80, si distinse per le sue denunce sulle torture che avvenivano nel carcere dell’Asinara e Pianosa, prima aperte per ospitare gli ex brigatisti, poi dopo le stragi di Capaci e di Via D’Amelio per rinchiudere coloro che si sono macchiati dei delitti mafiosi.

Nel ’ 96, quando da sottosegretario alla Giustizia promosse importanti leggi penitenziarie, era da poco finita l’emergenza mafia. Com’è stato possibile affrontare serenamente la delicata questione carceraria? Premetto che i governi passati avevano una classe politica differente rispetto a quella odierna. Le faccio un esempio. Quattro giorni dopo l’uccisione di Aldo Moro, quindi in piena emergenza terrorismo, il Parlamento ebbe la forza di approvare la legge Basaglia. Oppure negli anni 80, sempre in piena emergenza terrorismo e anche rivolte carcerarie, passò la legge Gozzini che comportò importanti e innovative modifiche all’ordinamento penitenziario. Fu oggetto di un’ampia discussione nella società e nel carcere e alcuni emendamenti poi approvati nacquero proprio dal dialogo con i detenuti: come quello sull’aumento dei giorni di liberazione anticipata e sulla retroattività di tale misura. Uno dei pochi casi, se non l’unico, nella storia delle nostre prigioni in cui i reclusi hanno collaborato proficuamente con il legislatore, per il tramite dei pochi parlamentari che avevano costruito un rapporto costante di presenza e di fiducia con il mondo penitenziario. Non si riuscì però a portare a termine una riforma vera e propria, quella ideata soprattutto dal magistrato Alessandro Margara, tra i padri della riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975. Purtroppo lo sforzo non ebbe l’attenzione che meritava e si è dovuto aspettare il 2015, quando il ministro Andrea Orlando convocò gli Stati generali dell’esecuzione penale, per tornare allo spirito della riforma. I lavori dei Tavoli sono stati tradotti parzialmente in una legge delega. Poi completamente disattesa dal governo M5S- Lega.

Lei in quel periodo era componente della Commissione Giustizia. Sì, dal 1987 al 1992. E fu in quel frangente che, oltre alla Gozzini, lavorammo per esaminare anche la legge sulla dissociazione dal terrorismo. In quel caso, però, un emendamento nato nelle cosiddette aree omogenee composte da appartenenti alle organizzazioni della lotta armata non ebbe successo. Si trattava della qualificazione del fenomeno come desistenza, una formulazione che avrebbe indotto maggiori adesioni e minori polemiche.

Quando invece era sottosegretario, quali leggi furono partorite? Penso ad esempio alla legge “Simeone- Saraceni”, che ha reso più facile la concessione al condannato delle misure alternative alla detenzione in carcere, nella convinzione che la permanenza in carcere sia utile per certi tipi di condannati, inutile e forse dannosa per altri. Oppure alla legge Finocchiaro, quella relativa alle detenute madri in carcere che hanno figli piccoli. Ma anche per quanto riguarda il sistema giudiziario introducemmo delle novità. Penso alla riforma della difesa d’ufficio e al gratuito patrocinio, all’introduzione del “giusto processo” in Costituzione o alla possibilità che professori e avvocati, per meriti insigni, possano diventare consiglieri di Cassazione su designazione del Csm. C’è il rammarico di non essere riusciti ad abolire l’ergastolo, nonostante il voto positivo al Senato.

Siete riusciti a chiudere, con il ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick, anche il carcere di Pianosa. Sì, questo grazie anche al ministro dell’ambiente Edoardo Ronchi per il recupero del patrimonio naturale dell’isola e ovviamente anche dopo le continue denunce da parte degli organismi internazionali come la Cedu.

Avete anche provato a modificare il 41 bis, riportandolo nei ranghi costituzionali? Ci provammo. In una seduta della Commissione Giustizia del 28 luglio 1999 accettai un ordine del giorno proposto dall’onorevole Tiziana Parenti che sollecitava una verifica delle modalità di applicazione del 41 bis, tenendo anche conto di una circolare che ha rivisitato alcuni punti dell’applicazione in relazione alle sentenze della Corte costituzionale che sono state più volte richiamate. Non va trascurato il fatto che l’autore della circolare fosse per l’appunto Alessandro Margara, pochi mesi prima di essere dimissionato da capo dell’Amministrazione penitenziaria. In quella sede intervenne anche l’onorevole Luigi Saraceni, esponente storico di Magistratura Democratica, dimostrando la volontà di modificarlo. Ma non ci fu nulla da fare. Anzi, il governo successivo, quello di Berlusconi, nel 2002 fece diventare legge il 41 bis e come se non bastasse, nel 2008, ci fu un emendamento bipartisan firmato da Anna Finocchiaro e Maurizio Gasparri per inasprire il regime duro. L’aggravio è stato impressionante.

Torniamo ad oggi. Nell’ultimo periodo, come garante regionale e anche da ex coordinatore dei garanti, ha evidenziato problemi urgenti sul carcere. Nonostante il periodo cupo nel quale sembra che la classe attuale politica indietreggi rispetto alle conquiste ottenute, credo che bisognerebbe rilanciare un dialogo. Sono almeno tre le questioni. Una riguarda la rivisitazione del testo unico sulle droghe. Non è concepibile che le carceri siano strapiene di persone a causa dello spaccio o uso personale di piccole quantità di sostanze stupefacenti. Bisognerebbe avere il coraggio di modificare il testo unico, cominciando a tener fuori dalla penalizzazione la coltivazione ( e ogni altra condotta) finalizzata al consumo personale, la cessione totalmente gratuita e la cessione finalizzata all'uso di gruppo. Altro problema riguarda l’affettività in carcere. Una questione affrontata durante i tavoli degli Stati generali e completamente disattesa. Sono contento che, grazie alla mia indicazione come Garante, la regione Toscana ha da poco approvato la proposta di legge al Parlamento sul diritto alla affettività e sessualità. Il terzo punto è il superamento del codice Rocco relativamente al doppio binario. Vede, l’ex ministro Orlando mi nominò commissario straordinario per il superamento dell’Opg. Con fatica ci siamo riusciti e la riforma sta funzionando. Ora bisogna abolire le misure di sicurezza per i soggetti imputabili, mentre per le misure psichiatriche suggerisco l’abolizione nell’ambito di una riforma complessiva del Codice penale, che elimini la non imputabilità e responsabilizzi anche i soggetti con patologia psichiatrica, dando nello stesso tempo gli strumenti e gli spazi per la cura.

E i soggetti psichiatrici reclusi in carcere? Il carcere non dobbiamo dipingerlo come un manicomio e bisogna contemplare all’interno di esso una vera e propria area sanitaria dove i detenuti con patologie psichiatriche posso essere assistiti da personale specializzato. Delle piccole Rems all’intero di esso, per intenderci.

Però sembra che il governo pensi ad altro. Sembra che tutto sia relativo a un problema di edilizia carceraria. Mentre in realtà dovremmo puntare alla chiusura delle carceri: c’è ne sono fin troppe. Come ha detto recentemente il Garante nazionale Mauro Palma, ci sono più di 20mila persone che scontano meno di tre anni. Poi più che di edilizia, bisognerebbe parlare di architettura. Non è ammissibile che esista lo stesso ambiente carcerario indistintamente per tutti. Penso ad esempio alle donne, recluse in una struttura pensata al maschile.