La sessione plenaria inaugurale del Parlamento europeo del 2020 si è chiusa, nel mese scorso a Strasburgo, con un focus sulla giustizia interessante ma anche meritevole di un’attenta riflessione. Tra i primi temi posti in agenda è apparsa infatti la questione di una lotta coordinata a livello comunitario alla criminalità, anche in relazione alle competenze della nuova super Procura della Ue. Non da oggi ci si pone in quest’ottica. Anzi, si può dire che questo aspetto sia tra quelli prioritari per portare avanti un’Unione che tuteli la sicurezza dei suoi cittadini. Da questo punto di vista, la parola chiave sembra proprio “coordinamento”. A offrirne conferma è anche una recente decisione del governo italòiano, che nel Consiglio dei ministri del 23 gennaio scorso ha approvato il decreto legislativo di attuazione di una direttiva Ue, la 2017/ 1371, con cui si impone un’ulteriore stretta penale sulle frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione. È un ambito che sollecita strategie di contrasto così complesse da aver agito, negli anni scorsi, quale stimolo più efficace proprio per l’istituzione della ricordata super Procura della Ue.

Ma per comprendere quanto sia difficile trovare, nell’idea del “coordinamento”, l’equilibrio fra la necessaria autonomia delle giurisdizioni nazionali e le esigenze di integrazione, c’è da fare una distinzione importante tra quello che dicono i numeri e le possibili modalità di azione.

Veniamo dunque ai dati. Quelli riportati a metà gennaio, in apertura di discussione al Parlamento di Strasburgo, dal vicepresidente della Commissione europea, Maroš Šefcovic, non sono positivi: si stima infatti che, nel 2017, i gruppi criminali indagati siano stati circa 5.000, con un incremento del 150% rispetto al 2013. Un’informazione del genere, di per sé, non fa che surriscaldare gli animi ed espone inevitabilmente al rischio di cadere nella trappola securitaria, la cui ricetta è nota e spesso riproposta: più poteri alle forze dell’ordine, maggiori controlli, norme più restrittive. Questo significa anche minore libertà? Potrebbe. È dunque il caso di mantenere gli occhi aperti sulla risposta corretta da dare al problema: non è infatti riducendo le libertà della persona che si contrasterà meglio la criminalità organizzata. Ma anche questa considerazione è stata tra gli argomenti della plenaria di Strasburgo, fortunatamente.

L’operazione da compiere dovrebbe poter ravvivare la fiducia dei cittadini e disincentivare le persone dal compiere attività illecite. C’è bisogno di un più veloce scambio di informazioni? Certo. È necessario conoscere i vari contesti e fornire risposte adeguate e diversificate? Pure. Il rischio da evitare è però quello di un accentramento verso un approccio solo “europeo” che perda la bussola e che non consideri la specificità dei vari Paesi e dei vari casi trattati.

Uno dei metodi più adeguati fa riferimento al principio della proporzionalità dell’azione giudiziaria: a monte, l’Europa può svolgere la funzione di coordinatore, disponendo di maggiori informazioni per porre le basi di un approccio più condiviso. Accanto a questo sforzo, però, non si dovrebbero dimenticare gli aspetti della territorialità e della sensibilità ai contesti. Chi ha competenza a valutare se l’applicazione della pena abbia portato ad un cambiamento effettivo della personalità del detenuto? Probabilmente il magistrato che ha seguito la storia del soggetto potrà nel tempo valutare meglio l’evoluzione del caso; ciò acquista una particolare importanza, per esempio, in relazione alla questione del riconoscimento di permessi premio ai detenuti condannati all’ergastolo. Se in funzione stabilmente su un determinato territorio, il giudice potrà anche verificare se, nel tempo, l’azione dello Stato sia riuscita a reprimere una particolare forma di organizzazione criminale che vi si era insediata.

E infine: è noto che esistano forme differenti di criminalità organizzata, con particolarità legate ai luoghi di insediamento. L’Italia, in questo settore, può vantare un patrimonio di conoscenze dettagliate non di poco conto, da condividere con tutti gli Stati membri dell’Ue per poter predisporre un’azione efficace di contrasto. È bene quindi ricordare che accanto alle dichiarazioni d’intenti di un Parlamento che parla da un’unica sede per rappresentare l’intera Europa, ci sono le operazioni concrete messe in atto dalle istituzioni. E se è vero che uno Stato si regge su principi etici, quando questi trovano applicazione, la risposta deve poter essere quella più adeguata al caso specifico. A maggior ragione se si parla di lotta alla criminalità: per poter rieducare, bisogna riformare. E un approccio più europeo, ma solo europeo, non sembra la risposta migliore.