Gli attivisti sciamano dentro Cinecittà, tutti con il naso all'insù e gli smartphone in mano a fotografare gli enormi studi di posa della fabbrica dei sogni sul Tevere. Per arrivare a quello allestito per la convention di Italia Viva, bisogna attraversare la ricostruzione del foro romano e l'arco di Costantino, con una possibile tappa ai due stand di street food rigorosamente artigianale. Superata l'agorà imperiale, dietro le impalcature che reggono il timpano di un tempio, tutto si colora di arancione-rosa: badge al collo di ogni partecipante oltre all'adesivo che lo staff incolla sui cappotti all'ingresso, poi un mega panel con il motto dell'assemblea nazionale: "Buon governo vs. populismo". Anche qui, un tripudio di selfie e sorrisi da pubblicare sui social.
Il padiglione dove si svolgono i lavori è pienissimo e buio, illuminato solo da un enorme led video su cui si proiettano grafici, immagini o il logo di Italia Viva, a seconda del mattatore del momento. Tutt'intorno, sulle gradonate ad anfiteatro, gli attivisti guardano il palco dall'alto verso il basso. Nulla è lasciato al caso: accucciati davanti al palco ci sono gli immancabili giovani tutti in maglietta bianca, nei posti più vicini gli amministratori. Dietro ma comunque visibili, pronti a sparire dietro le quinte, i vertici del partito. La struttura organizzativa somiglia a un deja vu della Leopolda: tecnici e politici che si alternano sul palco, ognuno con un tema. Tutto, però, ruota intorno all'intervento del leader Matteo Renzi: in fondo, sono tutti lì per lui, per capire su quali gambe costruirà quello che smette di chiamarsi movimento e diventa partito, ma anche per testarne la verve. Se ritrovata o svanita. E lui, dimenticati i tempi dell'evidente sovrappeso, non tradisce. Il primo giorno, quello della relazione più politica, Renzi sceglie la classica mise alla Obama, camicia bianca senza cravatta e giacca; il secondo, invece, preferisce il pullover con manica arrotolata alla Steve Jobs. In entrambe le occasioni, martella coi messaggi che ormai sono diventati un mantra di tutte le sue truppe parlamentari: «Giuseppe Conte è il nostro premier, ma...», cui Renzi aggiunge «Lui non è il punto di riferimento del progressismo, non lo è chi ha firmato i decreti Salvini». La frase che suona come un avviso di sfratto fa il paio con la seconda:  «Basta inseguire populisti, vogliamo dettare noi l’agenda e per farlo occorre avere una visione». Sottinteso: noi una visione ce l'abbiamo e lo abbiamo dimostrato in tutte le occasioni, dal veto sulla plastic tax che avrebbe fatto perdere l'Emilia, fino alla rottamazione dell'Irpef e al piano shock per le infrastrutture. La parola chiave, allora, diventa "progressismo". Archiviate destra e sinistra, la dicotomia che Renzi crea è quella tra progressisti e populisti: Italia Viva vuole essere l'avanguardia dei primi, nei secondi invece finiscono Movimento 5 Stelle e Lega. E il Pd? «Se sceglie di essere un partito progressista sono felice, ma se fa l'accordo strutturale coi grillini...». 
La platea si infiamma quando i toni si alzano e Renzi rivendica la battaglia che oggi sta dando più grattacapi al governo.  «Io non ho accettato di fare un governo per cedere al giustizialismo dei grillini», ribadisce, poi aggiunge  «Lo dico a M5S: noi non siamo tasse emanette. Dicono che Renzi vuole fare come FI, ma se devo scegliere trachi dice "mai prescrizione" e chi dice che "non è uno scandalo che ci sia qualche innocente in carcere", io sto con Forza Italia, noi non siamo per la cultura delle manette».   La sintesi è chiara:  «A Bonafede dico fermati finchè sei in tempo perchè in parlamento votiamo contro la follia sulla prescrizione, patti chiari amicizia lunga, non dite che non ve lo avevamo detto e senza dinoi non avete i numeri al Senato e forse neanche alla Camera,rifletteteci bene. Io voto la civiltà non la barbarie sulla prescrizione». Il tasto su cui batte di più, però, è la struttura. Il mantra: «Questo non è un partito di plastica». E allora via a un'agenda fitta di impegni, dai 10mila alberi da piantare fino all'assemblea statutaria in cui scrivere le regole. Poi il traguardo delle 100 sedi aperte in tutta Italia e 6 camper in giro per le regioni al voto in maggio. Renzi lo scandisce bene: il partito è di tutti voi e se volete che funzioni - come anche che la scommessa elettorale venga vinta - bisogna che tutti vi rimbocchiate le maniche. Raccogliendo fondi, ma anche radicando sul territorio e conquistando amministratori e attivisti. Senza guardare ai sondaggi, che pure continuano a fissare l'asticella in una forbice che va da 4 al 6%. «Qui c’è qualcosa di vero, questa non è l’ambizione di Renzi, è un popolo che sarà la grande sorpresa dei prossimi mesi. Più ci denigrano, più ci tengono ai margini e più detteremo l’agenda», ripete più volte il leader, chiedendo di non rivangare i vecchi livori con gli ex compagni dem e di lavorare pensando al futuro. Lui è sciolto come non lo si vedeva da tempo, i suoi - da Maria Elena Boschi a Ettore Rosato, fino a una Teresa Bellanova che agita le platee e si guadagna la standing ovation - ci credono molto. Sanno che è ora o mai più, che in questa fase di apparente calma piatta si giocano le fasi decisive di Italia Viva: se verrà uccisa in culla da una debacle alle regionali oppure se riuscirà a cogliere in contropiede il Partito Democratico e la sua struttura pachidermica, dunque lenta, in una fase in cui lo sprint potrebbe essere decisivo. Del resto, i prossimi mesi saranno cruciali: radicare un movimento nato in Parlamento non è uno scherzo, il tempo è poco e la conta è vicina. Intanto, tra i marmi di cartapesta di un luogo senza storia politica come Cinecittà, la corsa del partito di Renzi è cominciata.