L’8 agosto 2019 il presidente Sergio Mattarella promulga la legge di conversione del cosiddetto decreto bis in materia di ordine e sicurezza pubblica. Contestualmente invia una letterina ai presidenti del Senato, della Camera e del Consiglio nella quale segnala «due profili che suscitano rilevanti perplessità». Per cominciare, questo decreto interviene «a breve distanza di tempo» dal precedente. Quasi a significare che una sicurezza a… rate non è una tecnica di buon governo. E poi Mattarella viene al nocciolo delle questioni. Tiene a sottolineare che non c’è proporzionalità tra sanzioni e comportamenti.

E che la modifica dell’articolo 131 bis del Codice penale rende inapplicabile la causa di non punibilità per la «particolare tenuità del fatto» alle ipotesi di resistenza, violenza e minaccia a pubblico ufficiale.

Come ci sono parti legislativi deliberati dal Consiglio dei ministri “con riserva”, così ci sono promulgazioni del capo dello Stato “con osservazioni”. Un modus operandi non solo di Mattarella ma anche di qualche suo predecessore. E a ragion veduta. Perché, a meno di evidenti violazioni della Costituzione, se viene rinviata alle Camere una legge di conversione in zona Cesarini, addio decreto legge. E siccome questi benedetti decreti dovrebbero avere i requisiti della straordinaria necessità e urgenza, una loro bocciatura per mancata conversione nel termine di sessanta giorni sarebbe un bel guaio. E poco importa se i rilievi del Quirinale non riguardano il decreto ma emendamenti approvati dalla maggioranza in sede di conversione. Ogni volta che Mattarella sussurra alle orecchie dei governanti o, temendo una loro sordità, prende carta e penna, sa quel che dice. Si ricorderà delle sue lezioni agli studenti di diritto parlamentare durante le quali magnificava “La Costituzione inglese” del poliedrico Walter Bagehot. Banchiere, saggista, scienziato politico, direttore ed editorialista di The Economist.

Un libro che fotografa come meglio non si potrebbe le istituzioni britanniche ai tempi della regina Vittoria. E, per qualche verso, attuale anche ai giorni nostri.

Basti citare queste parole adattabili al nostro inquilino del Quirinale: «Il sovrano, in una monarchia costituzionale come la nostra, ha tre diritti: essere consultato, incoraggiare e mettere in guardia». E poi chissà quante volte nelle sue lezioni universitarie avrà citato la relazione del presidente della commissione dei Settantacinque Meuccio Ruini al progetto di Costituzione della Repubblica italiana presentato il 6 febbraio 1947. Ecco le parole di Ruini a proposito del capo dello Stato: «Nel nostro progetto, il Presidente della Repubblica non è l’evanescente personaggio, il motivo di pura decorazione, il maestro di cerimonie che si volle vedere in altre costituzioni». No: «Egli rappresenta ed impersona l’unità e la continuità nazionale, la forza permanente dello Stato al di sopra delle mutevoli maggioranze. E’ il grande consigliere, il magistrato di persuasione e di influenza, il coordinatore di attività, il capo spirituale, più ancora che temporale, della Repubblica» .

Fatto sta che tutto è a posto e nulla in ordine. Perché sono passati sei mesi dal monito del Colle e nessuno s’è fatto parte diligente. Strano, molto strano. A onor del vero, quando Mattarella vide per la prima volta Conte, pensò al neorealismo nella cinematografia del dopoguerra, quando gli attori non erano dei professionisti ma gente presa dalla strada. Nel caso di Conte, dalla cosiddetta società civile. Certo, il presidente del Consiglio pro tempore cambia d’abito neppure fosse un redivivo Fregoli.

E, nella parte di Zelig, è perfetto. Perché sta di qua e di là con la stessa disinvoltura. Eppure il Colle l’ha preso a benvolere. Perché ha fatto un corso regolare di studi, il che non è da tutti al giorno d’oggi. Perché, cattedratico, è – diciamo – un collega. Perché gli dà ascolto per il semplice motivo che gli conviene. Stavolta tuttavia, e forse per la prima volta, Conte ha fatto orecchie da mercante. Ma ha un alibi di ferro. Fateci caso, adesso che la maggioranza è cambiata, il “decreto Salvini” è puramente e semplicemente disapplicato il più delle volte. Un caso di abrogazione tacita non inusuale nel Belpaese, patria del diritto e del rovescio.

Insomma, ancora una volta siamo alle gride di manzoniana memoria. E allora che bisogno c’è di dare ascolto a Mattarella dal momento che il decreto sicurezza bis dà l’impressione di essere passato in toto a miglior vita? Diciamocela tutta: questo modo di fare – o meglio di non fare – all’italiana, cioè alla carlona, non fa una grinza.