«È caduta l'accusa più grave e infamante, che mi ha incatenato per dodici lunghi anni, l'accusa cioè di collusione e di aver agevolato la camorra. È rimasta però l'inspiegabile condanna a due anni per corruzione, senza menzione nel casellario giudiziario e pena sospesa, per una limitata vicenda localistica alla quale io sono completamente estraneo. Una sentenza inspiegabile alla luce dell'andamento del processo e delle memorie difensive prodotte. Per me è un’assoluzione piena mascherata». Mario Landolfi, ex ministro delle Comunicazioni del governo Berlusconi, non vuole chiudere la sua partita giudiziaria senza chiarire ogni aspetto di quella vicenda che lo tiene inchiodato da oltre un decennio. Una vicenda iniziata a febbraio 2008, quando il politico riceve un avviso di conclusione indagini che gli stravolge la vita, allontanandolo dalla politica e dal proprio partito, che ne prende le distanze. L'inchiesta è quella relativa alla società Eco4, attiva nel settore dei rifiuti e braccio operativo del Consorzio obbligatorio tra Comuni denominato Ce4. Un’indagine diventata, sotto il profilo mediatico, una costola di quella che ha visto l’onorevole Nicola Cosentino condannato in primo grado, nel 2016, a 9 anni di carcere per concorso esterno in associazione camorristica, ritenuto referente nazionale dei Casalesi. All'ex deputato viene però contestato un singolo fatto risalente al 2004 e avvenuto a Mondragone: secondo l’accusa, Landolfi avrebbe fatto dimettere, ad un mese dalle elezioni, il consigliere comunale di opposizione Massimo Romano per far entrare in Consiglio una persona che avrebbe aiutato l'allora sindaco Ugo Conte, di centrodestra, a mantenere il potere. Manovre che sarebbero servite a non far cambiare maggioranza nel Ce4, secondo la Dda consentendo ai clan di camorra di continuare a gestirlo, attraverso il rapporto con l'Eco4, i cui soci privati - i fratelli Orsi - pagavano mensilmente una tangente al clan La Torre, egemone a Mondragone. In cambio delle dimissioni, Romano avrebbe chiesto ed ottenuto l'incarico di assessore nella giunta post- elettorale per il fratello Agostino ( ispettore di Polizia) e un posto di lavoro trimestrale per la moglie presso la Eco4. Durante il processo, Landolfi rinuncia alla prescrizione, nel tentativo di uscire completamente pulito da una vicenda basata su un «cervellotico capo d’imputazione che non mi avrebbe portato alcun tipo di vantaggio», dice oggi l’ex deputato. Agli atti, spiega, mancano parti fondamentali. Mancano, cioè, testimonianze, intercettazioni - non autorizzate dal Parlamento ma che Landolfi rende pubbliche - e chiamate in correità. Tutto ruota intorno alle telefonate tra i fratelli Romano, in cui Agostino cerca di tranquillizzare il fratello sugli stipendi non pagati alla moglie da parte della Eco4, assicurandogli che «ne avrebbe parlato con Mario». Nessuna delle conversazioni, dunque, contiene la voce di Landolfi, né esiste alcuna telefonata in cui Romano confermi di «aver parlato con Mario».

«Nelle carte - sottolinea Landolfi, difeso dagli avvocati Emilio Nicola Buccico e Michele S - ci sono salti logici e conclusioni arbitrarie. Si parla di me, ma nessuno ha mai verificato se ci sono stati incontri tra me e quelle persone. Il mio comportamento non corrispondeva alle aspettative dell’accusa e anziché considerare infondata l’ipotesi formulata contro di me sono stato descritto come un soggetto che aveva tradito i propri sodali. Non c’era alcun elemento per trascinarmi in questa vicenda durata 12 anni. E che ancora durerà chissà quanto» .

L’accusatore arriva nel 2014: Giuseppe Valente, ex- Ppi poi passato in Forza Italia, piazzato alla guida del Ce4 proprio da Landolfi e imputato per estorsione aggravata. Dopo essersi costituito, ad ottobre 2013, per scontare oltre un anno di residuo di pena, con scadenza novembre 2014, a febbraio si pente, uscendo dal carcere l’ 11 aprile, ovvero ancor prima di aver fatto passare i canonici 180 giorni necessari dopo una collaborazione e nonostante una doppia conforme a 5 anni e 4 mesi per reati aggravati dall’articolo 7. Valente diventa il teste chiave nel processo Cosentino e, soprattutto, tira in ballo Landolfi. Che, però, si sente vittima di un complotto. A mettergli la pulce nell’orecchio è una lettera che arriva a Montecitorio il dicembre 2004. Il mittente è Augusto La Torre, boss in carcere dal 1996 e pentito di camorra dal 2003, quando si autoaccusa di una cinquantina di omicidi. La Torre chiede a Landolfi, col quale da ragazzino condivideva lo stesso condominio a Mondragone, di poterlo incontrare. Dice di avere delle cose da svelare, ma di volerlo fare di persona. Landolfi è cauto: informa l’allora pm antimafia di Napoli Raffaele Cantone, acquisisce la lettera e declina l’invito ad andarlo a trovare in carcere. «Sono impossibilitato a venire. Mi metta per iscritto quel che avrebbe voluto dirmi a voce», replica. Così arriva la seconda lettera, nella quale La Torre parla di un complotto ai danni del politico ex vicino di casa: «per non aver voluto accusare lei e altri innocenti ( cosa che hanno fatto altri collaboratori) io sono stato scartato». A La Torre, infatti, è appena stato revocato il programma di protezione per una presunta estorsione ai danni di un imprenditore. L’atto d’accusa del pentito è indirizzato soprattutto a Cantone, poi diventato capo dell’Anac, che trascina il collaboratore a processo per calunnia e che testimonia al processo dell’ex ministro come teste della difesa. Landolfi, intanto, invia tutto alla Procura di Napoli e attende che quel complotto venga negato o confermato. La Torre conferma tutto in aula, ma della questione non si saprà più nulla.

A giugno scorso la Dda chiede la condanna di Landolfi: una pena a 3 anni e 6 mesi, aggravante mafiosa compresa. Ma il colpo di scena arriva il giorno della sentenza, fissata per il 18 novembre. Quel giorno, dopo una camera di consiglio durata 6 ore, il Tribunale, anziché decidere, emette un’ordinanza per riascoltare Valente. «Ci siamo decisi a riascoltarla - afferma il presidente del collegio una settimana dopo - perché leggendo le sue dichiarazioni ci siamo accorti che c’erano più valutazioni conclusive che fatti puntualmente ripercorsi». Durante la prima camera di consiglio, dunque, i giudici non trovano elementi per condannare Landolfi. E nel dubbio, decidono di allungare ulteriormente un’istruttoria già chiusa. Nella successiva testimonianza, in 30 pagine di verbale, sono 23 i «non ricordo» e tre i «non so» pronunciati da Valente, che si contraddice più volte. Il tutto mentre il collegio a fianco, nel giudicare i coimputati che hanno scelto un altro rito, descrivono un altro scenario: «era talmente forte il malumore di Romano verso Conte Ugo e Giuseppe Valente che era intenzione di Romano informare addirittura Mario Landolfi». E quell’addirittura, commenta il politico, significa che quel Tribunale, leggendo le stesse carte, lo ha considerato estraneo. La sentenza arriva il 23 dicembre scorso: non c’è aggravante mafiosa, ma resiste la corruzione. «È un caso singolare - conclude -. Sono sempre stato un combattente, un politico di strada, ma da quel giorno la mia carriera è finita. E non so se ci sarà un futuro in questo senso».