Stati Uniti e Repubblica Islamica si combattono e l’economia mondiale soffre. E’ verissimo che, almeno ora, i due contendenti sembrano volere limitare il conflitto e governarne le conseguenze, ma la logica dell’escalation bellica, ordinaria o asimmetrica che sia, è sempre pericolosa. E comunque l’economia globale, che è già entrata in una fase complicata a causa della fortissima liquidità monetaria internazionale e dell’incertezza degli investimenti industriali prodotta dalla guerra economica sino- americana, rischia di essere colpita dal fall out radioattivo degli episodi bellici o paramilitari del conflitto.

Il primo livello di conseguenze economiche del conflitto è ovviamente quello relativo al prezzo del petrolio. «Prima dell’attacco al generale iraniano - ci spiega l’economista Paolo Guerrieri ( in una intervista per Radio radicale) - la previsioni internazionali, nonostante tutto, erano non pessimistiche, grazie alla tregua commerciale fra Stati Uniti e Cina, figlia del mini- accordo bilaterale».

Continua: «il 2029 era stato un anno sostanzialmente negativo con una crescita a livello mondiale vicina al 3 per cento». Un po’ poco per garantire lo sviluppo mondiale. «Quest’anno le previsioni indicano o meglio indicavano un incremento del Pil globale vicino al 3,5 per cento». Poco più dunque, ma comunque un dato migliore dell’anno precedente.

Ma i fronti di rischio permangono tutti: la guerra economica sino- americana anche con il mini- accordo commerciale di tregua, continuerà nei prossimi mesi. È un conflitto per egemonia economica e tecnologica: la tregua rischia di essere solo un momento di relativa calma, per riorganizzare le rispettive truppe. Huawei, il gigante cinese delle comunicazioni, sotto attacco da parte americana, continua a progredire, a livello di tecnologia e a livello di accordi e contratti. L’ultima notizia riguarda il si dell’India alla partecipazione di Huawei al 5G del subcontinente: Huawei a questo punto è riuscita ad entrare in un insieme potenzialmente imponente di mercati, la Cina e dintorni ovviamente, la Russia, l’Asia del sud, l’Africa ed altri paesi, Europa non esclusa.

Il confronto sino- americano prevedibilmente quindi continuerà, almeno fino a quando Washington non sceglierà di elaborare ed implementare un diverso approccio alla relazione con la grande economia capitalistica orientale emergente. Ma forse fino a novembre di quest’anno, Usa e Cina cercheranno di controllare questo confronto. La Cina perchè, a livello interno, deve gestire l’economia nazionale in fase di ribilanciamento e quindi di rallentamento; e, a livello internazionale, deve cercare di portare a casa l’RCEP, l’Accordo economico pan- asiatico, ormai definito ma in attesa dell’eventuale ripensamento indiano circa l’adesione di Delhi.

L’amministrazione Trump da parte sua non vuole correre rischi per la crescita americana, già in fase di indebolimento, in vista della campagna per la Casa Bianca. Non è un caso che il perno del mini- accordo commerciale sia l’impegno cinese all’acquisto di soia e prodotti agricoli americani, quindi la crescita e i profitti per gli agricoltori di stati chiave come l’Iowa.

La tregua commerciale, comunque, ha consentito un certo miglioramento delle previsioni internazionali. L’aggravamento del conflitto Iran- Stati Uniti potrebbe rimettere in discussione anche quel piccolo miglioramento nelle previsioni.

Le crisi mediorientali sono infatti un secondo, preoccupante, fronte di rischi per la crescita globale. Non da ora. Al centro, come dicevamo, c’è il prezzo del petrolio e quello ad esso direttamente collegato del gas naturale. Petrolio e gas sono tuttora una risorsa che entra nell’intera matrice produttiva ed economica di tutti i paesi del mondo. Vi entra però in maniera diversa. A seconda della relativa quota nella produzione di energia: più la quota di energia è legata a petrolio e gas, più quelle economie sono direttamente collegate alle dinamiche del prezzo dei combustibili fossili, anche perchè quelle quote non sono facilmente mutabili nel breve e brevissimo periodo: in caso di shock sui prezzi le quantità usate non cambiano facilmente nel breve e brevissimo periodo.

Non solo: il prezzo del petrolio come dicevano entra direttamente nella struttura dei costi di produzione. Quindi può indurre ad un aumento dell’inflazione, anzi di uno specifico e maligno tipo di inflazione, quella da costi. Le crisi come quella iraniano- americana tendono a far aumentare il prezzo del petrolio e questo è precisamente la conseguenza immediata più pericolosa per l’economia mondiale. L’economista Mario Baldassarri spiega bene cosa accadrà nel caso che questi incrementi si stabiliz- zassero. «Questi incrementi provocano una redistribuzione di risorse imponenti».

Nei paesi importatori di greggio e di gas, la redistribuzione avviene fra quei paesi e quelli esportatori; nei paesi autosufficienti a livello petrolifero ( o dintorni) la redistribuzione avviene fra consumatori e compagnie petrolifere. Il risultato in entrambi i casi è doppio e pernicioso: da un lato come abbiamo detto prima, aumentano i costi di produzione; dall’altro lato c’è un effetto recessivo a livello macro- economico. Ciò poichè i consumatori che vengono colpiti negativamente dagli aumenti tendenzialmente consumerebbero di più dei soggetti, oligarchie dei paesi esportatori o padroni delle compagnie petrolifere, che ne vengono colpiti positivamente.

Questi effetti negativi, di redistribuzione e di recessione, sono tanto più forti tanto più una economia è dipendente dai combustibili fossili.

Morale: le economia europee tendenzialmente sono forti importatrici di petrolio e gas, e quindi tendono a soffrire di una redistribuzione a vantaggio dei paesi esportatori, da quelli mediorientali o africani alla Russia; l’effetto però è molto mitigato in quei paesi che hanno una forte industria di fonti rinnovabili, che hanno un forte nucleare civile, o che hanno una società a forte efficienza energetica: Francia o paesi nord e centro- europei.

Gli Stati Uniti, con lo shale gas, sono diventati autonomi quanto a produzione di combustibili fossili: quindi la redistribuzione per quanto li riguarda sarà fra consumatori e compagnie petrolifere; e sarà imponente a causa della loro fortissima dipendenza da combustibili fossili.

Ciò accadrà se i prezzi del petrolio e quindi del gas si consolidassero a un livello più alto: non è però sicuro che ciò effettivamente accadrà. La tensione nel Golfo persico è altissima e rimarrà sicuramente molto alta, ma molto dipenderà dalla reazione iraniana e dalle controreazioni americane e come si è visto in questi giorni, tutti gli attori di questa crisi tendono, almeno per ora, a cercare di controllarla.

Ma i veri punti a difesa dell’economia mondiale sono altri: in primo luogo, c’è la tendenza di alcune importanti economie a sostituire il petrolio e i combustibili fossili con altre fonti energetiche. Ciò vale dall’Europa all’Asia. Ciò ovviamente modifica in meglio la matrice energetica abbassando significativamente la quota del petrolio.

In secondo luogo c’è una caratteristica sempre più rilevante del mercato petrolifero globale, l’aumento dei paesi produttori. In questi anni, sono entrati prepotentemente altri attori in questo mercato: a cominciare da alcuni paesi africani e sudamericani, E un paese mediorientale ricchissimo di riserve energetiche, l’Iraq, è rientrato nell’arena globale con la fine del il regime di Saddam Hussein: l’aumento del prezzo congiunturale stimola immediatamente l’aumento di produzione di questi paesi che oltretutto quasi sempre hanno una estrema necessità di risorse economiche per investimenti, infrastrutture, bisogno sociali. Morale: tendenzialmente, gli attuali assetti del mercato energetico mondiale tendono a controbilanciare con una certa efficacia gli shock petroliferi. Oggi siamo in una situazione profondamente diversa rispetto agli anni Settanta del secolo scorso.

Tutto bene quindi, nonostante tutto per l’economia mondiale, nonostante la crisi iraniano- americana? Non è detto. Tutto alla fine dipenderà dalle reazioni di Teheran e dalle contro- reazioni di Washington.

Se l’Iran bloccasse ad esempio Hormuz e quindi il passaggio delle petroliere che da lì passano per rifornire una buona parte dell’economia mondiale, le conseguenze potrebbero essere molto serie, nonostante quelle caratteristiche del mercato energetico globale.

Ma non c’è bisogno di arrivare a decisioni strategiche così drastiche per avere effetti molto pericolosi a livello globale. In primo luogo, c’è l’aumento esponenziale dell’incertezza economica. L’incertezza è un mostro molto subdolo: rende più difficili le decisioni di investimento; deprime i consumi; rende tutti più resti verso il cambiamento.

La campagna anti- cinese ( e anti- europea) dell’amministrazione Trump ha già prodotto una sostanziale riduzione degli investimenti industriali da parte del capitale occidentale a causa proprio dell’enorme incertezza nelle catene del valore globali prossime. Le crisi nel Golfo contribuiscono ed alimentano quell’incertezza ulteriormente e ciò comunque deprime l’economia mondiale. E poi c’è la “guerra asimmetrica”: l’Iran sa perfettamente che non può neppure pensare di combattere un conflitto convenzionale ( o non convenzionale) né con gli Stati Uniti né con Israele: ma invece può dare filo da torcere ad entrambi con gli strumenti della guerra asimmetrica, dalla guerriglia, alle guerre per procura fino alla cyberguerra.

Ad esempio, che cosa accadrebbe all’economia mondiale a guida americana, se ci fosse un cyberattacco? L’Iran in questi mesi ha mostrato di avere ben chiara la forza geopolitica di iniziative economiche, da quelle relative ai mega- giacimenti sauditi ad Hormuz. Che cosa accadrebbe quindi in caso di un cyberattacco?

Morale: l’impatto economico globale della crisi mediorientale dovrebbe essere contenuto o molto contenuto. Salvo sorprese!