A Roma si dissacra tutto. La sede della Suprema Corte di Cassazione è per tutti “Il palazzaccio”, anche se la sua architettura a confronto con certe realizzazioni contemporanee non merita tanto disprezzo. Per anni è stato il tempio laico del diritto. Così lo volle il ministro Zanardelli che ne prescrisse la costruzione e che lo volle in palese antitesi alla prigione papalina di Castel Sant’Angelo e al Cupolone di San Pietro, che gli sono vicinissimi, ma che da Piazza Cavour volutamente non si vedono. Ogni avvocato che dalle provincie più remote saliva le sue scale, magari dopo aver noleggiato una toga all’ingresso, si sentiva onorato e tornava a casa lusingato anche solo per le poche parole che gli toccava di dire davanti al supremo consesso.

I più diligenti di viaggi a Roma ne facevano un paio, uno per la discussione e uno per leggere le requisitorie scritte della Procura Generale e controllare il fascicolo, perdendosi nei meandri affascinanti del Palazzo, tra statue di giuristi e corridoi infiniti. Da qualche tempo, l’incanto è finito. Il tempio è diventato una fabbrica, dove si producono massime e decisioni in quantità industriale. La presenza dell’uomo- avvocato è ormai superflua. Non si fanno più sentenze, che anche dall’etimo richiamano l’ascolto e il sentimento, ma si emanano secche ordinanze.

Non si ascolta quasi più la voce degli avvocati. Nella cause civili la loro presenza è rarefatta e in quelle penali ridotta al minimo, spesso al simulacro del “riportarsi ai motivi”, fatto da un legale di passaggio. Girando per i corridoi si notano cartelli perentori affissi alle porte che avvisano i viandanti di non valicare le soglie delle aule, diventate oramai laboratori destinati ai soli e veri scienziati del diritto, i magistrati, che decidono “in camere di consiglio non partecipate”, come si dice in gergo, senza la fastidiosa presenza dei logorroici postulanti.

Perfino l’accesso alla cancellerie è limitato ; gli avvocati ora si arrestano alla soglia dell’ufficio relazioni con il pubblico, come se anziché protagonisti del giudizio in cassazione fossero solo spettatori. Da ultimo, ma non in ordine di importanza, si è ascoltata la voce del Presidente Davigo, che si è fatto latore di un pensiero già diffuso tra i giudici: agli avvocati ridotti a spettatori far pagare di tasca loro il biglietto ogni volta che osano turbare i lavori del laboratorio giuridico con i loro vani ricorsi.

Del resto il Primo Presidente Canzio pochi anni fa scrisse e parlò di una “Corte assediata”, dove la parte dei barbari invasori era destinata ai difensori, che con le loro inutili doglianze rendevano dura la vita nella cittadella del giure. Eppure chi è avvocato cassazionista, per poter patrocinare e soggiornare al Palazzaccio anche solo per qualche minuto paga già regolare quota annuale, una sorta di simbolico canone e risulta iscritto nel registro speciali dei patrocinanti in Cassazione, un tempo vanto e lustro delle toghe con i cordoni dorati .

Insomma, da sacerdoti laici di un tempio ( la definizione, bellissima è contenuta nel testamento spirituale di Gabriele Cagliari, una delle prime vittime di Tangentopoli), gli avvocati in Cassazione sono ridotti a occupanti senza titolo, morosi e senza nemmeno un Monsignore a sostegno. Questa potrebbe sembrare una bagatella senza importanza e le mie lamentele marginali, se in Cassazione non si decidesse dei diritti e delle libertà di tutti i cittadini e se in gioco non ci fosse una questioncella che si chiama Stato di diritto.

L’abolizione della prescrizione, per chi non lo sapesse, esisteva già: era contenuta in una circolare del Primo Presidente della Corte di Cassazione che incentivava lo strumento della declaratoria della inammissibilità per manifesta infondatezza.

Per i non addetti ai lavori, funziona così: anziché scrivere che un ricorso non va accolto e limitarsi a respingerlo, i giudici di Cassazione scrivono che è palesemente infondato, come se invece di parlare del processo il difensore avesse scritto qualche poesia. In questo modo, si deduce che il ricorso è come se non fosse mai stato presentato e quindi che il tempo passato per esaminarlo non vale ai fini della prescrizione.

Sembrano cronache di Bisanzio e invece è quotidiana realtà, con l’aggravante che magari quello stesso ricorso era stata ritenuto talmente fondato da richiedere il suo accoglimento dalla Procura Generale. Con l’amaro risultato che il povero avvocato non solo vede vanificato il proprio lavoro, ma si vede anche beffato dal fatto che il suo scritto ha convinto il massimo organo dell’accusa, ma è stato considerato carta straccia dal Giudice supremo.

Ora, secondo Davigo, l’avvocato, che già passa brutti momenti ad annunciare rigetto e magari galera al cliente, va anche multato. Aspetto solo che siano riaccesi i fuochi in Campo dei Fiori, con una sommessa avvertenza: ho scoperto che un mio antenato, certo Fulvio Luparini, fu messo al rogo per sospetta eresia qualche anno prima del più famoso Giordano Bruno. Insomma: abbiamo già dato. Quanto meno, come pare abbia detto San Lorenzo sulla graticola, girateci dall’altro lato; da questo siamo già cotti.