Antonio Sangermano non è un magistrato che semplicemente partecipa alla vita associativa. È tra coloro che nel suo mondo credono con convinzione nel valore di una idealità coltivata. In un’aspirazione superiore e dialettica all’interno delle cosiddette correnti. «Alla fine ho lasciato Unicost perché a mio giudizio si era svuotata di contenuti», dice. E in effetti l’ex vicepresidente dell’Anm ha dato le dimissioni, poche settimane fa, non solo dal gruppo centrista ma anche dal “parlamentino” dell’Associazione magistrati, ossia il comitato direttivo centrale.

«Rifiuto il trasformismo, ma credo anche in un’evoluzione dell’associazionismo giudiziario: da una parte i progressisti, dall’altra chi respinge l’idea della militanza ma promuove una nuova aggregazione di sensibilità diverse, comunque avvinte dai valori costituzionali». Ebbene, non sorprende che proprio da un magistrato come Sangermano, ora a capo della Procura dei minori di Firenze e così attento alla dialettica ideale nella sua categoria, arrivi un’adesione addirittura culturalmente motivata alla riforma della prescrizione: «È un cambio di rotta rispetto a precedenti norme che hanno affievolito la capacità investigativa dello Stato», sostiene.

Quindi la virata dell’Anm sulla prescrizione è positiva? È stato giusto passare da una valutazione subordinata alla effettività di riforme acceleratorie al sì incondizionato?

Sì, si è scelta una posizione più netta, che condivido. In un momento in cui i magistrati sono attaccati da più parti, il ministro Bonafede ha tenuto la barra dritta e ha ripudiato legislazioni responsabili di un indebolimento dello Stato.

A cosa si riferisce?

Basti l’esempio del micidiale combinato disposto fra la riforma della custodia cautelare, che ha innalzato a 5 anni la soglia di pena per la quale i reati non consentono la misura carceraria, e l’articolo 73 quinto comma della legge 79, che ha ridotto la sanzioni per i reati ordinari di droga. Ne è conseguito il puntuale rimaterializzarsi degli spacciatori arrestati poche ore prima in flagranza, con una devastante perdita del senso di sicurezza. L’ulteriore danno è in risposte strumentali come la legittima difesa, legge pericolosa che risponde in modo sbagliato a un’istanza vera.

Ma il prezzo dell’addio alla prescrizione è altissimo.

Non mi nascondo rispetto alle critiche sulla riforma. Ma non è accettabile né che la possibile innocenza di un imputato resti velata da un dubbio né la mancanza di tutela per la persona offesa. Si tratta di una sconfitta totale. Ora, io credo ci siano tutti gli strumenti per ancorare la storica riforma della prescrizione al principio della ragionevole durata del processo.

Strumenti rimasti finora nel novero delle ipotesi.

Partiamo da un assioma: i processi vanno fatti. Possono concludersi con un’assoluzione o una condanna: tertium non datur, non è accettabile che si prescrivano. Non condivido la posizione espressa al vostro giornale dal procuratore di Viterbo Paolo Auriemma, secondo il quale trascorso tanto tempo si deve rinunciare a punire una persona nel frattempo cambiata. Non condivido per il semplice motivo che non si deve lasciar trascorrere tanto tempo senza concludere i processi.

E chi garantisce che nessun processo avrà durata irragionevole?

Se sento palare di ergastolo processuale come ricaduta dello stop alla prescrizione, ne devo desumere una inaccettabile sfiducia nei confronti di noi magistrati, vagheggiati come dei fraccomodi che si addormentano sul fascicolo una volta sfangata la sentenza di primo grado. Eppure parliamo della magistratura col più alto tasso di produttività in Europa.

Ma non è necessario diffidare di giudici e pm: basta prendere atto che il sistema non riesce a tollerare l’enorme quantità di reati previsti come tali dall’ordinamento.

Mi perdoni: risulta o no che le prescrizioni si concentrano in alcune sedi?

Certo.

Bene, mi pare se ne possa dedurre che esiste la specifica complessità di alcuni territori, ma anche che le capacità organizzative contano. E io penso esattamente a una riforma che responsabilizzi i dirigenti degli uffici, procuratori e presidenti di Tribunale. Dovrebbero essere loro a stabilire per ogni singolo processo o categoria di processi un tempo di definizione ragionevole. E, cosa essenziale, nel fissare tali limiti dovranno consultarsi col presidente dell’Ordine degli avvocati, che andrà coinvolto in un tavolo trilaterale istituito allo scopo.

Se i tempi non vengono rispettati?

Ne pagano le conseguenze gli stessi capi degli uffici, in termini di carriera. Rispetto alla permanenza nella loro funzione o alla possibilità di assumere ulteriori incarichi direttivi. La tardiva definizione dei ruoli diventerebbe cruciale nella valutazioni del Consiglio giudiziario e del Csm.

Non punire il singolo giudice che deposita tardi la sentenza ma pregiudicare le ambizioni del suo capo, insomma.

Noi magistrati aspiriamo molto alla dirigenza: bene, dobbiamo assumercene gli onori ma anche gli oneri. Il criterio dell’eventuale sforamento dei tempi di definizione va accompagnato con verifiche più fitte, altrimenti il procuratore al suo secondo quadriennio non è più sollecitato a vigilare. Le conseguenze disciplinari per il singolo magistrato resterebbero per i casi di negligenza inescusabile, ma la vera chiave è nel peso dell’efficacia manageriale. In questo, ripeto ancora, sarà molto importante la valutazione dell’avvocatura su una prognosi di durata effettivamente realistica dei processi.

Ma non andrebbe comunque previsto un limite di durata del singolo processo superato il quale l’azione decade?

Sono contrario a conseguenze endoprocessuali. Confido piuttosto in meccanismi di compensazione e surrogatori, ma credo che una pianificazione precisa produrrebbe grandi benefici. In ogni caso la prescrizione processuale credo sarebbe incompatibile con l’obbligatorietà dell’azione penale sancita all’articolo 112 della Carta.

In certi casi il sistema non regge il peso dei processi e produce durate parossistiche.

Si deve rispondere con investimenti in risorse, cancellieri e magistrati. E serve una svolta culturale, anche da parte dell’avvocatura, orientata al principio per cui i processi vanno fatti, altrimenti lo Stato si rappresenta come impotente.

E non è necessario, a volte, accettare che lo Stato non ce la fa?

Di fronte a un fallimento il cittadino danneggiato ha il sacrosanto diritto di far causa, così come lo Stato ha diritto di rivalersi sul proprio servitore negligente.

Procuratore, lei non fa dello stop alla prescrizione solo uno strumento di presunta efficienza, ma addirittura un principio: rappresenta una magistratura idealistica anche se alternativa al tradizionale impegno dei progressisti?

Lo scandalo del maggio 2019 ha coinvolto magistrati tutti appartenenti all’area moderata. Ne è venuto un indebolimento di Unicost, che ho deciso di lasciare, ma anche una tendenza a riaggregarsi fra magistrati che non condividano la connessione con identità politiche, eppure ritengono doveroso un perimetro di libertà ideale entro cui ciascuno possa coltivare la propria visione. Da una parte un polo progressista, dall’altra uno polifonico, con diritto di residenza a tutti, di sinistra, di centro o di destra, ma in un’accezione costituzionale e senza collateralismi.

Dopo l’addio a Unicost, le hanno rinfacciato di essere di destra.

È un’offesa. L’identità culturale di un magistrato non viene solo dall’idea di certezza della pena, che pure custodisco, e che unisco al rigore, finora abiurato dall’Anm, nelle incompatibilità fra ruoli associativi e candidature al Csm. L’identità è anche nella visione su temi come l’ambiente, il lavoro, l’uguaglianza. Mi auguro solo che magistrati con visioni pure diverse rafforzino lo spazio associativo in cui possano sentirsi liberi di coltivarle.