La contraddizione non potrebbe essere più stridente. Da un lato l’M5S - imprescindibile pilastro della governabilità possibile dopo le elezioni del 2018 - è in crisi verticale, si sgretola, perde pezzi, è in calo costante di voti e di capacità d’iniziativa.

Dall’altro, i suoi capisaldi politico- programmatici trionfano e marciano imperterriti.

Reddito di cittadinanza, prescrizione, taglio dei parlamentari sono infatti legge; la revoca della concessione autostradale alla famiglia Benetton è a un passo dal realizzarsi. In sostanza alla bufera interna, che più passano i giorni più diventa un groviglio inestricabile, corrisponde un rosario di vittorie che riguardano la politica socio- economica, quella giudiziaria, l’industriale e infrastrutturale. Qualunque premier e qualunque governo sarebbero entusiasti di avere un carniere così pieno. E allora che sta succedendo? Le analisi di un fenomeno che mischia evanescenza e possanza al punto da diventare un unicum europeo, sono tante. Forse per comprenderlo appieno bisogna tener presenti, tra gli altri, due elementi.

Primo. I due aggregati populisti vittoriosi alle elezioni hanno provato a governare assieme: sono durati poco più di un anno per poi crollare. Anche qui le ragioni possono essere tante e diverse, ma il risultato è indiscutibile: l’asse M5S- Lega non ha funzionato. Immaginare di riproporlo, magari con rapporti di forza rovesciati dopo un’altra tornata elettorale, è davvero complicato.

Secondo. Le macerie provocate dal terremoto gialloverde non sono state rimosse. Nel senso che non è stata avviata una discussione profonda sulle ragioni politiche, sociali, strutturali dell’insuccesso. Si è preferito costruirci sopra un altro edificio governativo, con “esposizione” a sinistra invece che a destra.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti. La disgregazione pentastellata e, almeno in parte, del Pd ( remember Renzi?) fanno sì che il vertice del 7 gennaio convocato da Giuseppe Conte più che un summit per definire un’agenda d’azione, abbia le sembianze di una riunione straordinaria dell’Onu. Con la stessa cacofonia, la stessa inconcludenza, la medesima voglia dei partecipanti di brandire l’ascia di guerra del disimpegno e della crisi. Che poi non ci sarà: ma questo invece di alleviare il problema, lo aggrava.

Come finirà è complicato prevederlo. Ma c’è un’ulteriore specificità che va sottolineata.

A differenza dell’aggregato gialloverde, quello attuale ha una forza estrinseca che funziona da collante: la presenza di un Nemico. Al tempo del governo dei vicepremier, infatti, il campo avverso era a brandelli. Il Pd barcollante come un pugile dopo il knock- out; FI slabbrata e incerta. Facile vincere così. Invece i dioscuri si sono cappottati: e torniamo al discorso di prima. La maggioranza attuale, al contrario, un nemico ce l’ha eccome: è Matteo Salvini. Politicamente, contro di lui si affilano i coltelli giudiziari con la messa in stato d’accusa per la Gregoretti; socialmente, lavorano le cento piazze delle Sardine.

La conseguenza è che da un lato gli sconquassi grillini invece che avviare il collasso conquistano nuovi spazi. E, dall’altro, che la bramosia del Pd per i voti pentastellati in libera uscita lasci spazio programmatico all’alleato ( e al premier, considerato altro fattore di disgregazione da coltivare) e invece di accelerare, azzeri la voglia di urne: stiamo scherzando, consegnare il potere al Capitano?

Giammai. Meglio andare avanti così. E pazienza se rischio è arrivare al tagliando elettorale, quando sarà, sfibrati e in perenne confusione.