Vogliamo che le persone o i gruppi che diffondono odio utilizzino i nostri servizi, non importa di chi si tratti».

Parole che arrivano direttamente da San Francisco - Menlo Park per la precisione - sede storica di Facebook.

Insomma, Mark Zuckerberg e soci proprio non vogliono avere tra i loro iscritti i “fascisti del nuovo millennio” di Casapound. E per questo hanno annunciato ricorso contro la decisione del Tar di Roma che qualche settimana fa aveva ordinato la riattivazione della pagina dell’associazione di estrema destra.

«Ci sono prove concrete che CasaPound sia stata impegnata in odio organizzato e che abbia ripetutamente violato le nostre regole. Per questo motivo abbiamo presentato reclamo», ribadiscono dalla California. E poi: «Partiti politici e candidati, così come tutti gli individui e le organizzazioni presenti su Facebook e Instagram, devono rispettare queste regole, indipendentemente dalla loro ideologia».

Ma è chiaro che la decisione di Facebook, che si considera una società privata e dunque in diritto di stabilire “leggi” e regole e comminare pene in modo arbitrario, pone un problema di libertà di pensiero.

Facebook è un social molto particolare. È indubbiamente uno strumento di propaganda e comunicazione straordinario, e chiunque ne venisse privato, che sia un partito di destra, di centro o di sinistra, subirebbe un danno molto simile a quello provocato da una censura.

Non si tratta quindi di difendere Casapound, ma il diritto di ognuno a poter esprimere le proprie idee anche on line. Un principio affermato dalla stessa sentenza del Tar: «È evidente il rilievo preminente assunto dal servizio di Facebook con riferimento all’attuazione di principi cardine essenziali dell’ordinamento come quello del pluralismo dei partiti politici ( 49 Cost.), al punto che il soggetto che non è presente su Facebook è di fatto escluso ( o fortemente limitato) dal dibattito politico italiano».