Ma che senso ha scrivere oggi un libro sulla Dc, che se chiedi a un millenial ti risponde: ” Dc? E cos’è?”. O, nel caso più benevolo, costringere un povero diavolo a salire nella soffitta della mente per ritrovare in un angolino istantanee a brandelli di signori in imbarazzanti completi scuri, per lo più calvi e occhialuti, seppiati nel fermo immagine.

Ma che senso ha scrivere ancora oggi un libro sulla Dc, che se chiedi a un millenial ( ma anche a qualcuno più stagionato) ti risponde: ” Dc? E cos’è?”. O, nel caso più benevolo, costringere un povero diavolo a salire nella soffitta della mente per ritrovare in un angolino istantanee a brandelli di signori in imbarazzanti completi scuri, per lo più calvi e occhialuti, bloccati quanto basta e seppiati al punto giusto nel fermo immagine, per concludere che è roba del secolo scorso e adieu.

Bene, allora facciamo così: prendete in mano il libro di Marco Follini Democrazia Cristiana, il racconto di un partito, edito da Sellerio e poi ne parliamo.

Nessuna riabilitazione postuma ( vogliamo scherzare? non ce n’è alcun bisogno...). Nessuna operazione nostalgia. Piuttosto il resoconto disincantato e puntuale della storia della formazione politica che ha retto tanto socialmente quanto istituzionalmente il Paese dal Dopoguerra fino agli anni ‘ 90, impregnando di sé gli italiani e da questi lasciandosi impregnare. L’analisi di una traiettoria che è anche l’autobiografia di una Nazione che oggi si sente smarrita, impoverita e incattivita. E per molti versi guarda a quell’epopea come ad una sorta di perduto Eden. Non era così, tutt’altro. Ci sono state pagine storte, pagine oscure, pagine da dimenticare. Però in quei decenni sicuramente c’era la politica: quella che Follini ha solcato ininterrottamente, anche lui forgiandola e lasciandosi forgiare. Ci sono destini peggiori, non c’è dubbio.

In copertina c’è una foto scattata da Enzo Sellerio negli anni Sessanta. Un gruppetto di persone si ripara dalla pioggia con qualche ombrello, stringendosi sotto uno striscione elettorale della Balena bianca. Perfetta illustrazione per il libro di Follini, che solo in apparenza batte ancora la strada della storia del partito all’interno del quale si è formato.

In questa occasione l’ex leader Udc nonché vicepresidente del Consiglio ha dismesso i panni del politico per impugnare la penna dello scrittore, attento al come raccontare i fatti e più ancora a inserirli in una continuità emotiva. A volte persino sentimentale.

Più che dire della Democrazia Cristiana l’autore parla di sé, con un noi di modestia che esprime una riflessione - allora condivisa, poi divenuta personale - sul senso di un’esperienza politica nella quale si è spesa una vita. Con il distacco della piena maturità si chiede se sia valsa la pena aver investito i talenti ricevuti, pochi o tanti che siano, come ha fatto: la risposta non può che essere articolata. Dubbiosa. In linea con la testata del quotidiano che avete sotto mano.

Proprio questa fu probabilmente la cifra dell’agire dc: apparentemente ondeggiante, in realtà tormentato da un insieme di consapevolezze, tutte irrisolte, che andavano dal segno da attribuire alla gestione del potere, alla natura dei compromessi ai quali la politica costringe, ai problemi connessi con le alleanze e le contrapposizioni. Segnatamente con socialisti e comunisti.

Eppure dietro a queste incertezze si collocava quello che appare quasi come il senso di una missione, di un compito preciso da svolgere, che non si riduceva al mantenimento dell’Italia nell’area delle democrazie liberali occidentali, ma si allargava allo sviluppo economico e sociale del Paese, anche a costo di doversi misurare con questioni nelle quali fede e politica si confondevano, come divorzio e aborto.

In questo contesto il giovanissimo Follini, segretario del Movimento Giovanile scudocrociato, disponeva di un osservatorio privilegiato per incontrare, nel pubblico come nel privato, e conoscere i protagonisti di quella stagione. I cavalli di razza, come vennero chiamati, Moro e Fanfani, e i tanti maggiorenti di primo livello, da Colombo a Rumor, da Cossiga a Bisaglia, da Forlani a De Mita ( «Mi piacerebbe invecchiare come lui», confidò una volta ad un amico). Personalità complesse, che gestivano il potere senza esibirlo, quasi vergognandosene, con un’estetica nata e cresciuta con i comizi di piazza e la televisione in bianco e nero, ben diversa da quella imposta dagli aggressivi media odierni.

I titoli dei capitoli del libro associano tutti il termine partito a un aggettivo o un sostantivo, componendo così un panorama delle definizioni che vennero date della Democrazia Cristiana e nello stesso tempo dei problemi reali che i suoi dirigenti dovettero affrontare nella prassi politica quotidiana. Si va dai rapporti con la Chiesa alla questione della leadership, dall’uso del potere al rischio di rimanerne prigionieri, alla difficoltà di gestire un sistema che la forza elettorale, non spendibile nell’area governativa, del Partito Comunista Italiano rischiava di mantenere bloccato. Gli ultimi due capitoli sono dedicati al partito “incompiuto” e a quello “misterioso”. Un tentativo di spiegare, attraverso un attento esame di coscienza, le ragioni del successo protratto nel tempo e poi della repentina scomparsa della Democrazia Cristiana.

In tono con l’impianto del libro, le intenzioni originarie dell’autore sono affidate alla nota conclusiva, dove leggiamo che le pagine scritte sono state «un tentativo di catturare lo spirito democristiano cercando di indagarne alcuni dei molti, troppi risvolti. Di spiegarne insieme, la grandezza, lo splendore, la mediocrità e il disfacimento». Sarebbe troppo, anche per l’Autore, imbastire un parallelo con la situazione italiana attuale, quasi alla stregua della traiettoria di una parabola che mischia destino e scelte. Per cui esaurito il lascito della Dc, per l’Italia non c’è altro sbocco che il declino. Eppure, eppure.... Se andiamo a pagina 225 leggiamo queste parole e tutto diventa più chiaro: «Avevamo fatto i conti anche noi ( democristiani, n. d. r.) con il carattere ferino della storia italiana. Ma avevamo visto nella politica l’occasione per addomesticare quel carattere... L’Italia paziente, minuta, benpensante, un po’ rassegnata, incuriosita dalla complessità tutto sommato fiduciosa che avevamo immaginato e coltivato cominciava a rovesciarsi. E sulle sue rovine affiorava un altro Paese. Un paese che nella levità del nostro antico dominio vedeva solo una coltre di cui era ansioso di liberarsi... Coltivando dapprima demagogia a piene mani. E scivolando poi inesorabilmente lungo la china di quello che sarebbe stato chiamato populismo».

Un incubo, per Follini. Non solo per lui. Lo stesso che stiamo vivendo sulle macerie del tempo e della politica che furono. Chissà se, quando e come gli italiani da quell’incubo si risveglieranno.