C’è la storia dei due presunti pedofili finiti a processo quando l’avvocato che li ha fatti assolvere era ancora al liceo. O l’imprenditore, che otto anni dopo aver ricevuto una visita della Guardia di Finanza si è visto notificare l’atto con cui veniva fissata la prima udienza. Sono solo alcune delle storie sviscerate nel corso della maratona oratoria organizzata dall’Unione delle camere penali italiane in piazza Cavour, davanti al Palazzaccio, per dire no all’entrata in vigore della norma che blocca la prescrizione dopo la sentenza di primo grado.

E durante la seconda giornata ad intervenire è stato anche l’ex presidente del Senato Renato Schifani, che indossando le vesti di avvocato ha stigmatizzato il cambio di rotta dell’Anm, invocando l’approvazione di una legge delega «che fissi principi certi e perentori nella fase delle indagini», per andare a colmare il vero vulnus che rende i tempi del processo incerti.

Una norma, quella che prevede il blocco della prescrizione, «palesemente incostituzionale - ha sottolineato il senatore -, perché viola l’articolo 111, che fissa dei paletti sulla ragionevole durata del processo, votati all’unanimità da tutti i partiti. Tutti, quindi, condivisero il principio che il processo deve avere ragionevole durata, che deve essere fissata da legge ordinaria».

E con una legge ordinaria, ha aggiunto, che entrerà in vigore a gennaio, si andrà a fissare «una irragionevole durata del processo», rappresentando «una bomba sul nostro sistema giudiziario». Una legge nata sulla base di un accordo politico che prevedeva, entro il 2019, anche la riforma del processo, poi mai realizzata. Il risultato è che anziché fissare tempi certi per il processo si finisce per fissare «il processo ab eterno», cosa che in un regime di diritto e democrazia «non può essere condivisa».

«Quello che mi preoccupa - ha aggiunto - è che dietro questa norma vi sia un principio squisitamente ideologico, non strutturato nel ragionamento giuridico di una classe forense». Ed è duro anche il giudizio sull’Anm: «rispetto il sindacato delle toghe - ha sottolineato - ma mi stupisco di come abbia cambiato idea, perché nel giro di poche settimane, dopo essere stata polemica, ha fatto un’inversione ad U». L’augurio di Schifani è, dunque, che «all’interno della maggioranza si trovi una sintesi per il differimento dell’entrata in vigore di una norma palesemente irrazionale, ingiusta, illiberale - ha concluso - che contrasta il nostro stato di diritto e la nostra storia».

La norma, ha evidenziato Antonio De Simone, della Camera penale di Roma, rischia di tenere «una persona incatenata dentro le aule giudiziarie», risultando inconciliabile col principio della ragionevole durata del processo, finendo per danneggiare anche le vittime di reato, impossibilitate a vedersi risarcire in tempi brevi. E rimanda «alla famigerata scuola di Kiel», ha denunciato Giulio Gasparro, della Camera penale di Roma, ovvero quella che preparò giuridicamente il nazionalsocialismo, abolendo la prescrizione per tenere sotto processo per anni gli oppositori. «Siamo in presenza di un tumore che creerà una metastasi infinita - ha denunciato -. È stato barattato un diritto con la contingenza del momento. È ignoranza o lo stanno facendo apposta? Se lo fanno apposta è gravissimo, ma credo sia così».

Diverse, anche ieri, le storie rievocate per dimostrare i pericoli insiti nella riforma. Come quella di Teresa Cesarano, del foro di Torre Annunziata. «Quando ero al liceo - ha raccontato - due persone finirono a processo per pedofilia. È durato 11 anni e mezzo, tanto che in appello li ho assistiti io. Si è chiuso con un’assoluzione, ma mi hanno confidato di aver pensato anche di farla finita». Altra storia quella raccontata dall’avvocato Valentina Manchisi, di Monza. «Un imprenditore di nome Giovanni, nel 2005, venne accusato di aver emesso false fatture.

Dopo i controlli della Finanza non ne seppe più nulla e continuò a svolgere il suo lavoro tranquillamente e regolarmente - ha raccontato -. Bene, nel 2013, senza che venissero svolte altre indagini oltre quei primi accertamenti, Giovanni ha ricevuto una notifica per la fissazione della prima udienza, nel 2014. Quando, durante la prima udienza, ho sottolineato che la prescrizione era maturata, il pm ha invocato una norma del 2011, che allungava i tempi di prescrizione di quel reato. Io feci notare che il reato era stato compiuto prima del 2011.

A quel punto intervenne il giudice, che disse una cosa che ricorderò sempre: non è colpa di questo tribunale, del difensore o dell’imputato se la Procura si è svegliata dopo parecchi anni per fissare udienza, specie se non ha svolto altre indagini. Ecco, cerchiamo di spiegare che è inumano tenere sotto scacco una persona che può anche redimersi senza la persecuzione di un processo infinito. Ed è inumano anche per la vittima non sapere se avrà giustizia. Questa riforma - ha concluso - vuol dire consentire la liceità di un abuso, a cui ci opporremo sempre, coi mezzi che la Costituzione e la legge ci mettono a disposizione».