«Chi vuole trasformare il Movimento in un partito non ha che da scegliere, esca: ce ne sono lì fuori di partiti da scegliere, ne nasce uno al giorno». Mentre i gruppi parlamentari grillini si trasformano ogni giorno di più in un polveriera pronta a esplodere contro il capo politico, Luigi Di Maio prosegue la sua crociata contro i ribelli: chi non si trova più a suo agio può tranquillamente accomodarsi all’uscio, è l’invito. Peccato che più d’uno cominci a prenderlo sul serio e a svuotare lentamente gli scranni pentastellati. L’ultimo, solo in ordine di tempo, è il senatore Ugo Grassi, che solo due giorni fa ha annunciato l’addio. «A questo punto io vedo che la contraddizione tra ciò che mi era stato prospettato, che era oggettivamente il programma M5S, e ciò che sta accadendo, è diventata così aspra che abbandonare il Movimento diventa legittima difesa», ha dichiarato il quasi ex esponente M5S, in rotta col suo partito perché contrario all’istituzione di una Agenzia nazionale per la ricerca, prevista dalla manovra. «Vuol dire assoggettare la ricerca italiana a un controllo politico. Per me è aberrante. È una cosa che io non avrei mai voluto trovare in legge di bilancio, è la negazione di quello che c’eravamo promessi. Allo stato, non voto la manovra», ha spiegato Grassi. «Se passo alla Lega? Non rispondo a questa domanda. Diciamo che poi uno vede che fare». E in attesa che Grassi si guardi intorno, la leadership di Di Maio perde nuovi pezzi. Il leader pentastellato è diventato il bersaglio di ogni frustrazione. A lui vengono imputati tutti i fallimenti del Movimento 5 Stelle: dal “dissanguamento” elettorale al rebus Ilva, dall’assenza di una linea politica definita allo stallo sul capogruppo alla Camera. Ovunque si presenti un problema, l’indice grillino punta su un solo uomo. Tra Camera e Senato da settimane si parla di vari documenti sottoscritti dagli eletti per chiedere un ridimensionamento radicale del giovane leader di Pomigliano d’Arco.

«Di Maio non è più il capo politico come lo era 4 mesi fa. Ma non vorrei che il discorso della leadership sia una foglia di fico per non discutere del tema vero: a chi dobbiamo parlare», ha dichiarato in Tv il senatore Gianluigi Paragone.

E come se non bastasse, a minare il già precario trono del capo politico ci si mettono le elezioni regionali. Di Maio ha annunciato l’individuazione di una serie di referenti territoriali per lavorare al report degli appuntamenti elettorali da maggio in poi. Una toppa che non basta a placare la rabbia dei militanti emiliani e calabresi, i primi a essere interessati dalle urne a fine gennaio. Per loro Di Maio non ha una soluzione in tasca. O peggio, prospetta ipotesi che spaccano ulteriormente la base pentastellata. Archiviata la stagione delle alleanze locali coi dem e in assenza di candidati forti, il ministro degli Esteri ha fatto sapere, per bocca del potentissimo Max Buga, che in Emilia Romagna sarebbe meglio saltare un giro. Difficile capire se si tratti di una sorta di desistenza mascherata, per non togliere voti al Pd, o di una resa per evitare una pesante brutta figura nella regione che ha visto nascere politicamente il Movimento 5 Stelle. Di certo, la linea non piace né ai consiglieri regionali uscenti, né a molti parlamentari storici. Come Danilo Toninelli, ex ministro non riconfermato che pubblicamente ha criticato il ripiegamento deciso dall’alto.

Ma se in Emilia piangono, in Calabria non ridono. Anche al Sud, infatti, i grillini, dietro suggerimento di Nicola Morra, sembrano intenzionati a mollare. Uno smacco, per Dalila Nesci, deputata pentastellata al secondo mandato che da giugno scorso ha messo nelle mani di Di Maio la sua disponibilità a candidarsi. Ma i vertici del partito pare abbiano già preso una decisione: a gennaio il simbolo non concorrerà alle elezioni.

Luigi Di Maio prova a nascondere pubblicamente la debolezza elettorale del suo Movimento in questa fase, ma così facendo a finire su piazza è la fragilità di una leadership sempre più contestata.