«Non fondo correnti. Non do indicazioni di voto. Guardo a una politica associativa nuova. E sono convinto che l’orizzonte sia proprio quello verso cui ho invitato, inutilmente, Unicost a incamminarsi». Antonio Sangermano è protagonista, nell’Anm, di quello che nei partiti veri si definirebbe un disagio politico insopportabile.

Procuratore presso il Tribunale dei minori di Firenze, in passato pm a Milano e titolare dell’accusa contro Berlusconi al processo Ruby, fa parte del direttivo, cioè il “parlamentino” dell’Anm, e del “sindacato” dei magistrati è stato anche vicepresidente: sabato scorso ha annunciato la propria netta divergenza dalla corrente di cui ha fatto parte a lungo, Unicost appunto, insieme con il collega Enrico Infante, magistrato del Tribunale di Foggia e ormai ex segretario di quel gruppo.

«Unicost ha commesso un errore strategico, e prima ancora un grave errore di analisi», sostiene Sangermano, «non ci si è resi conto che dopo lo scandalo di maggio sarebbe stato necessario cambiare tutto, introdurre una vera ed efficace incompatibilità tra il mandato all’Anm e la candidatura al Csm. Dopodiché, visto che il caso Palamara ha investito solo magistrati moderati, da Ferri ai cinque consiglieri superiori costretti a dimettersi, a me è parsa chiara la naturale ristrutturazione della dinamica associativa in chiave bipolare e maggioritaria. C’era l’occasione, intanto, di sostenere Pasquale Grasso alle suppletive del prossimo 8 dicembre, o chiunque potesse aggregare, come lui, i moderati. E invece Unicost si è consegnata a un ruolo ancillare della magistratura progressista, di Area, componente non toccata dallo scandalo. Un’occasione persa».

Ma dopo il caso Palamara davvero le correnti non sono cambiate?

Serviva una riflessione critica sull’intero sistema. Non siamo di fronte a degenerazioni individuali, non si tratta di eliminare una piaga purulenta, come Unicost ha dato l’impressione di intendere. Non si può demonizzare il singolo ma finire poi per salvare oggettivamente, e sottolineo l’avverbio, il sistema, al di là delle intenzioni.

Il sistema a suo giudizio sarebbe “salvato” dalla riforma dell’incandidibilità votata nel parlamentino dell’Anm?

Vede, lo scandalo di maggio non è frutto di una aberrazione comportamentale. Al di là delle responsabilità che il procedimento giudiziario dovesse accertare, Palamara è figlio di una visione, di un modo d’intendere le correnti.

In che senso?

Costituisce l’epifenomeno di un’oggettiva commistione tra Anm e Csm. È questo l’humus che spiega l’intera vicenda. Il pernicioso crocevia include anche quanto accade, spesso, dopo la consiliatura al Csm: Palamara, ad esempio, ambiva a un incarico da procuratore aggiunto. Solo alle elezioni di un anno fa per Palazzo dei Marescialli ci siamo trovati con tre candidati provenienti dal direttivo Anm. È il cuore del cosiddetto sistema correntizio, è qui che si crea l’intreccio pernicioso tra correnti, ambizioni personali e politica.

Se davvero il nodo è quello come si scioglie?

Con un’incompatibilità vera: i componenti del direttivo Anm, una volta terminato il loro mandato, per almeno 4 anni non dovrebbero potersi candidare al Csm. Altrimenti appena usciti dall’Associazione già si proiettano verso il Consiglio. L’ho proposto al direttivo dell’Anm, ma alcuni componenti di Unicost, con l’adesione di Area, hanno detto no: hanno votato per un’incandidabilità limitata al mandato in corso. Di fatto hanno detto no al vero rinnovamento.

I paletti che lei invoca non rischiano di tenere lontano dall’associazionismo togato proprio chi ha passione per la rappresentanza?

È l’obiezione rivoltami dagli avversari. Però mi perdoni, allora se ne dovrebbe dedurre che chi si candida per l’Anm lo fa solo in vista della successiva elezione al Csm e magari della carriera futura? L’Associazione magistrati deve tornare a essere un sindacato di categoria rivolto all’affermazione dei valori costituzionali, uno spazio di elaborazione politico- culturale, non un trampolino di lancio. Altrimenti teniamo tutte quante in piedi le premesse del famoso scandalo.

Anche Magistratura indipendente era per l’incandidabilità prolungata. Ma si tratta anche del gruppo che ha respinto come ipocrita la reazione dura delle altre correnti di fronte al caso Palamara: lei non si sentirebbe a suo agio neppure coi colleghi di “Mi”?

Andiamo con ordine. Primo: nell’Anm si è creata una frattura storica tra consevatori e chi era per un salto coraggioso, la strada che anche “Mi” ha indicato. Riguardo al rigore delle condotte, c’è un altro discorso da fare.

Vale a dire?

Vengono da gruppi moderati, da “Mi” o da Unicost, tutti i magistrati coinvolti nel caso Palamara. Area ne è rimasta meritoriamente estranea, e ne è uscita rinvigorita. Nell’associazionismo giudiziario, ne consegue una oggettiva, naturale bipolarizzazione degli schieramenti. A questo si aggiunga un percorso che a me pare condurre Unicost ad essere culturalmente subalterna alla magistratura progressista di Area.

E lei cosa ha proposto al direttivo di Unicost?

Se il baricentro si sposta culturalmente a sinistra bisogna riorganizzare il campo moderato. Unicost avrebbe dovuto farsi attore di un simile processo, basato sull’integrazione di orientamenti anche non perfettamente sovrapponibili a partire da due criteri: libertà da pregiudiziali ideologiche e integralismo nel pretendere e attuare il rigore dei comportamenti. Invece i colleghi moderati ora possono vedersi rappresentati solo da “Mi” e da Autonomia e indipendenza.

Il gruppo di Davigo.

Rimasto fuori, va ricordato, dal crocevia pernicioso di cui sopra. Unicost avrebbe dovuto mettervi fine e interpretare la torsione maggioritaria ormai evidente nella politica associativa. Non lo ha fatto. Ho criticato la reazione di “Mi” dopo i fatti di maggio, è apparsa giustificazionista, ma poi quel gruppo ha giustamente chiesto la svolta sulle regole che Area e Unicost hanno interpretato in chiave riduttiva. Unicost avrebbe potuto convergere sulla candidatura moderata di Pasquale Grasso, o chiunque altro con quel profilo, alle suppletive di dicembre, da contrapporre a Elisabetta Chinaglia di Area. Ha individuato invece una bravissima collega, Silvia Corinaldesi, come candidata interna, ma così ha scelto anche di non promuovere un’aggregazione più larga.

Lei promuoverà la nascita di un nuovo gruppo? E intanto chiederà ai colleghi di votare per Grasso?

Io non faccio endorsement. Dico che Grasso sarebbe stata l’occasione, per Unicost di segnare un punto di svolta, basato sull’integrazione culturale e sull’integralismo come collante dei moderati. Dopodiché non do indicazioni, non dispongo di una base elettorale, non sono un satrapo: cerco di svolgere analisi, di fare politica associativa a partire dai principi, affinché orientino gli schieramenti.

Tra le alternative al sorteggio per il Csm, Bonafede potrebbe optare per i grandi elettori all’americana suggeriti da Pietro Grasso.

Io sono per collegi piccoli e per candidati scelti in base al loro valore, alla loro visione culturale, non selezionati da una forma di localismo tribale.

Lei è un magistrato di destra?

Guardi che un magistrato non è schierato politicamente né a destra né a sinistra. Io sono per l’apoliticità della funzione e contro il collateralismo.

È vero che alcuni colleghi l’hanno “accusata” di essere berlusconiano?

Parole che offendono la mia reputazione, perché nei confronti di Silvio Berlusconi, da pm, ho formulato una richiesta di condanna, accolta. Poi la legge Severino ha complicato il quadro. Ho rispetto per chi rappresenta le istituzioni: per Berlusconi e chiunque altro. Credo di aver fatto il mio dovere di pm e di potermi permettere di esprimere la mia visione culturale senza essere frainteso, se non da chi è in malafede.