Salvatore Buzzi potrebbe corrompere ancora. È per questo motivo che la Corte d’Appello di Roma ha respinto la richiesta avanzata dai difensori del ras delle cooperative, gli avvocati Alessandro Diddi e Pier Gerardo Santoro, che avevano depositato un’istanza di scarcerazione alla luce della sentenza di Cassazione sul processo “Mafia Capitale”, che aveva escluso l’esistenza di un’associazione a delinquere di stampo mafioso.

Solo corruzione l’accusa che ha retto il vaglio dei tre gradi di giudizio, facendo dunque sperare Buzzi di poter lasciare il carcere di Tolmezzo. «La motivazione del rigetto è legata al fatto che secondo i giudici Buzzi potrebbe reiterare la corruzione con la nuova classe dirigente - hanno commentato Diddi e Santoro -. Evidentemente la Corte d’appello ritiene, incredibilmente, che la nuova classe politica possa farsi corrompere, essendo la corruzione un tipico reato bilaterale».

In appello Buzzi era stato condannato a 18 e 4 mesi, pena ora da rideterminare con un nuovo giudizio d’appello, dopo la caduta del capo d’accusa relativo al 416 bis. Stessa storia anche per Massimo Carminati, che ha ottenuto la revoca del 41 bis, che dovrà vedersi ricalcolare la pena al pari di altri imputati considerati dall’accusa associati.

Un’associazione che, però, secondo i giudici d’appello in realtà non esiste. In attesa di conoscere le motivazioni con le quali i giudici del Palazzaccio hanno bocciato la tesi della Procura di Roma, quel che resta della maxi inchiesta è l’esistenza di due distinte associazioni a delinquere, che hanno messo le mani sulla Capitale senza però utilizzare il metodo tipicamente mafioso.

A processo c’erano 32 imputati, di cui 17 condannati a vario titolo dalla Corte d'Appello di Roma, a settembre dello scorso anno, per associazione a delinquere di stampo mafioso, con l'aggravante mafiosa o, ancora, per concorso esterno. L'accusa avanzata dalla Procura era quella di aver costituito una «nuova» mafia, con propaggini nel mondo degli appalti della Capitale. E nel corso della requisitoria davanti agli Ermellini la procura generale aveva ribadito quella tesi, chiedendo la sostanziale convalida della sentenza d'appello.

«Possiamo dire serenamente che quando si parla di associazioni mafiose le dimensioni non contano, conta se si è usato il metodo mafioso - aveva detto in aula il procuratore generale della Cassazione Luigi Birritteri -. Il fatto da provare non è la violenza esterna ma il metodo mafioso, a cui si può far ricorso attraverso la blandizia, gli schieramenti di potere, l’appoggio alle campagne elettorali».

Ma i giudici di Cassazione hanno accolto la tesi delle difese, che sin da subito hanno provato a dimostrare che quella di Buzzi e Carminati era solo una vicenda di corruzione. Così come avevano stabilito i giudici di primo grado il 20 luglio 2017, quando la condanna più dura venne inflitta all’ex Nar Massimo Carminati: 20 anni di reclusione contro i 28 anni chiesti dalla procura.

Al “ras delle cooperative” Salvatore Buzzi, invece, furono inflitti 19 anni, contro i 26 anni e 3 mesi richiesti. Per il Tribunale, non era stato «individuato, per i due gruppi criminali», quello presso il distributore di Corso Francia e quello riguardante gli appalti pubblici, «alcuna mafiosità “derivata” da altre, precedenti o concomitanti formazioni criminose». Non basta il ricorso alla corruzione, avevano obiettato i giudici, «è invece necessaria l’adozione del metodo mafioso, inteso come esercizio della forza dell’intimidazione» .