A forza di tirarla, la corda si spezza. Le parole filtrano da sotto la porta del Nazareno e testimoniano il clima infuocato in cui il segretario Nicola Zingaretti ha riunito in vertice i ministri dem al governo. Fuori è un campo minato: fronti aperti da ogni lato e pochissimo tempo per risolverlo. Il primo e più impellente è il capitolo sull’Ilva che infiamma in questi giorni, esploso - come precisano dal Pd a causa delle posizioni intransigenti dei grillini, che hanno impedito lo scudo penale.

Ma c’è anche e soprattutto la legge di Bilancio, temporaneamente messa all’angolo ma sempre incombente. Entro dicembre andrà approvata e per ora sembra la tela di Penelope: fatta in consiglio dei ministri e nei vertici di palazzo Chigi, smontata dalle bordate di Matteo Renzi e Luigi Di Maio ad ogni occasione pubblica. Per questo i dem sono stanchi: «Non possiamo essere gli unici a fare da scudo all’Esecutivo dalle bordate esterne», ragionano i dirigenti Pd. Zingaretti tace, in un angolo della mente spunta il solito prurito: quello scetticismo di fondo al momento della nascita del governo ma che aveva zittito perchè convinto dalle condizioni esterne e da alcuni fidati consiglieri, in questi giorni è solo andato aumentando.

Persino un mite come lui ha mostrato tutta l’insofferenza nei confronti di Movimento 5 Stelle e Italia viva e soprattutto dei due leader Di Maio e Renzi, entrambi alle prese con la necessità di costruirsi una dimensione di leadership sia interna che esterna. Ma, ragiona Zingaretti, non possono farlo a spese del governo che dovrebbero sostenere: «Gli altri cercano visibilità, ma noi doniamo il sangue».

Dopo la riunione, come spesso fa, si rifugia negli ambienti a lui familiari. Va alla Magliana, nella periferia sud della sua Roma, ad inaugurare un circolo Pd e lì ripete quel che va dicendo da giorni: «Noi non vogliamo andare alle elezioni ma un governo che governi bene, che proponga al Paese una proposta di crescita, sviluppo, lavoro senza polemiche e sgambetti. Ma se non c’è una proposta percepita dal Paese e se non c’è un buon governo...».

Il concetto è lo stesso del post- vertice: il filo rosso che tiene insieme questa maggioranza riottosa sta per spezzarsi, perchè il partito che fino ad oggi si è dimostrato più fedele al premier Conte non ne vede più il fondamento politico: «Si può governare insieme da amici, non da avversari», ha detto pubblicamente lo stesso Zingaretti.

Proprio da qui spunta l’ennesimo fantasma che infesta il Nazareno. Il voto in Emilia Romagna si avvicina pericolosamente - mancano meno di tre mesi -, i sondaggi non sono buoni e l’alleanza Pd- 5 Stelle che doveva diventare strutturale sembra ormai gettata nel dimenticatoio del buco nero umbro ( anche se a giorni alterni dalle parti della Regione Emilia si paventano spiragli di apertura). Lo stesso candidato Stefano Bonaccini mostra segni di nervosismo, aumentando la pressione su Zingaretti. Addirittura, se in manovra rimanesse la plastic tax tanto invisa alle industrie emiliane, ha minacciato di correre da solo con una lista civica.

Giri di telefonate, momenti di concitazione, poi lo stesso Bonaccini ha incassato un inizio di vittoria e ha corretto il tiro: «Ho fiducia nel governo, o modifica il provvedimento o addirittura lo rinvierà, ma comunque ci sarà un intervento come hanno già garantito il ministro Gaultieri e il viceministro Misiani». Eppure, al Nazareno è chiaro che in questo modo è impossibile durare. Sia come partito di governo che Zingaretti come segretario.

L’Emilia, infatti, si configura sempre più come la vera incognita che rischia di far definitivamente spezzare la corda. Se, per un miracolo di convergenze, si arrivasse indenni alla manovra di dicembre, la storica regione rossa sarà il test per il Conte bis e per la segreteria dem. In caso di sconfitta, nessuno ha dubbi: Zingaretti lascerebbe il Nazareno per un traghettatore ( il nome più accreditato è quello di Andrea Orlando) e il governo non potrebbe che entrare in crisi. Impossibile, come invece vorrebbe Matteo Renzi, pensare a un nuovo Esecutivo pur di far durare la legislatura: il presidente della Repubblica ha già fatto sapere che, in caso di caduta del Conte bis, la strada sarà lo scioglimento delle Camere e il voto in primavera. Per ora è fantapolitica, ma nessuno - soprattutto i parlamentari - è più disposto a giurare sulla tenuta del governo e inizia a chiedersi chi staccherà la spina e chi, invece, rimarrà col cerino in mano.