Lo sguardo lungo di Luciano Violante dribbla le polemiche e gli scontri sulla manovra economica (“Ci sono sempre stati, nei governi di coalizione sono fisiologici, perché meravigliarsi?”) e plana sulle questioni di fondo che agitano l’Italia. A partire dalla necessità di ritrovare la connessione tra una politica troppo disinvolta che snobba l’obbligo di spiegare ai cittadini le sue scelte: un esempio clamoroso è l’intesa di governo tra M5S e il Pd; alla “rifondazione” che Zingaretti ha annunciato; ai nodi della giustizia, compreso lo stop alla prescrizione.

Eppure, presidente, c’è chi nella maggioranza agita le divaricazioni sulla legge di Bilancio per trovare visibilità e chi mette ogni giorno i bastoni tra le ruote. Il metodo “salvo intese” non è l’anticamera della crisi?

Dobbiamo riflettere sul tono di una parte del M5S; mostrandosi aggressivi si cerca di riconquistare una centralità politica che purtroppo si riduce. Ma fare l’opposizione al governo di cui si è parte non è salutare per nessuno neanche per i cittadini, nei cui confronti c’è il dovere di essere chiari.

Forse pesa il risultato dell’Umbria, dove i Cinquestelle sono precipitati a percentuali di una cifra...

L’esperienza umbra è stata per il M5s particolarmente dannosa. Bisogna tuttavia considerare che lì la destra già governava alcune delle principali città e c’era stata la vicenda della sanità che nelle polemiche elettorali non c’è stato modo di risistemare.

Ma ora Luigi Di Maio afferma che l’accordo con il Pd a livello regionali non è più riproponibile. E come si fa a governare assieme a Roma e poi divaricarsi in periferia?

Quando si fa una scelta impegnativa, il governo con il Pd, tirarsi indietro dopo tre mesi dopo una sconfitta, non conforta l’elettorato e non consolida la leadership. Anzi dà l’idea di un’incertezza. Lo dico perché il M5S ha rappresentato una parte grande del Paese che si è sentita esclusa, marginalizzata. Precipitare di elezione in elezione è preoccupante, ma cambiare direzione in corsa forse non aiuta…

Non si capisce peraltro in che direzione porterebbe questo cambiamento: con la destra hanno già governato ed è andata male; e da soli non hanno più i voti…

Penso si debba partire da una considerazione più di fondo. Il 50% circa degli elettori del M5S non ha votato altri partiti, ma si è astenuto. La sconfitta è stata determinata dalla non partecipazione al voto. Allora mi chiedo: si è spiegato agli italiani e in particolare agli umbri perché si è fatta questa alleanza? Gli astenuti possono essere recuperati; ma offrendo loro un ragionamento serio per spiegare la scelta, ascoltando le obiezioni e replicando, se si è capaci. Altrimenti rischi di perdere anche il 50% dell’elettorato che ti ha votato.

Questa operazione verità la deve fare solo Di Maio o anche il Pd?

Ance il PD. Circa il 30% degli elettori non lo ha votato; non ha scelto altri, ma si é astenuto. Chi si astiene, vale anche il M5S, può certamente essere convinto a tornare al voto, ma solo attraverso una paziente ed umile opera di spiegazione. I dirigenti del Pd, così anche quelli di M5S, dovrebbero andare nelle principali città italiane e spiegare al Paese perché si sono fatte certe scelte e quali sono gli obbiettivi. La politica è una continua azione di pedagogia reciproca tra chi parla e chi ascolta. Chi ascolta deve poter parlare e chi parla ha il dovere di ascoltare. Non sono sufficienti gli interventi nei talk show o le interviste sui media.

L’annuncio di Zingaretti di voler rifondare il partito del partito va in questa direzione oppure non è sufficiente?

Può darsi che sia giusto. Ma io credo che sia prioritaria spiegazione all’elettorato delle scelte che si fanno. Rifondazione mi sembra una parola abusata: è dagli anni ‘ 90 che viene ciclicamente riproposta: i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Al contrario, non abbiamo mai spiegato con chiarezza il tema del rapporto del Pd con il comunismo.

Cosa intende?

Voglio essere chiaro. Io sono stato comunista, forse lo sono ancora in qualche spazio della mia coscienza. Ma un partito politico ad un certo punto deve prendere con nettezza le distanze da quello che ha lasciato. La tradizione comunista, storicamente e politicamente, è una via chiusa. Ora la sinistra deve proseguire sul terreno socialdemocratico. E’ un nodo da sciogliere.

Lei ritiene che ci sia ancora uno spirito comunista dentro il Pd?

No. Sarebbe archeologia. Del resto basta guardare i quadri dirigenti di quel partito e le leadership che si sono succedute. La fascia operativa ha in media quarant’anni: nulla a che vedere con ciò che è accaduto diopi iol crollo del Muro di Berlino.

Spieghiamo meglio. Secondo lei è necessario per il Pd tagliare i ponti con il passato e costruire un’agenda per il futuro e un’idea di Paese partendo dalla rivisitazione e abbandono della tradizione ideale del comunismo?

Il mio suggerimento è che bisogna superare le ambiguità. E’ chiaro che non abbiamo più niente a che fare storicamente con quell’esperienza, che il mondo è cambiato radicalmente, che le società sono mutate profondamente. Dunque anche i gran- di temi dell’azione politica sono cambiati. È un fatto obbligato: solo il cristianesimo dura da 2.000 anni. Il comunismo era figlio di una certa stagione che è terminata. La sinistra è in difficoltà dappertutto, Francia, Germania, USA; l’Italia è nella regola anzi forse sta meglio di altri.

Per un verso ci vuole una spiegazione di quello che si sta facendo, per l’altro ci vuole una presa di distanza dal passato. Il comunismo italiano è stato nettamente diverso da quello sovietico; ma questa diversità non è sufficiente. Un partito socialdemocratico è ciò che serve. Il PD non può essere una riedizione del cattocomunismo. Ogni volta che cambi nome cambi identità, segno di incertezza rispetto a quello che sei; ma l’identità va abbandonata o spiegata; non va messa nel cassetto. Il comunismo è stato insieme un grande strumento di liberazione e di oppressione. Nel mondo è stato strumento di libertà all’opposizione e di oppressione quando ha governato.

A proposito del rapporto con i Cinquestelle: quale sistema elettorale è il migliore per realizzare questa prospettiva, il maggioritario o il proporzionale?

Nell’esperienza italiana secondo me la legge migliore è quella proporzionale con alta soglia di sbarramento, tipo al 5%. Perché il maggioritario dà un eccessivo potere contrattuale alle piccole forze, che diventano indispensabili quando si aggiungono alle grandi per conquistare i collegi. E poi a successo ottenuto ( o anche in caso di sconfitta) se ne vanno per conto loro. Lo ha fatto Rifondazione comunista; lo ha fatto l’Udc di Mastella. Invece un meccanismo elettorale proporzionale con adeguato sbarramento taglia via le forze non rappresentative. Nella campagna elettorale per le elezioni politiche ciascuno deve spiegare chiaramente il programma. Dopo le elezioni chi ha maggiore capacità di coalizione va al governo e se va male i cittadini avranno modo di cambiare alle elezioni successive. In ogni elezione, a livello regionale, comunale e politico, bisogna avere un obiettivo preciso: la governabilità della realtà per la quale si concorre. Quella realtà, ad esempio la Regione, è diversa da altre. Ovviamente quando si ripetono gli scossoni nel sentire pubblico, il governo deve tenerne conto. La mia idea è che il sistema elettorale proporzionale serve per fare un ragionamento di respiro più ampio. Il collegio favorisce il rapporto con l’elettore, ma riduce il dibattito politico a questioni minori, intimamente legate a quel perimetro. Con la riduzione dei parlamentari poi, i collegi del Senato saranno composti da circa 300 mila persone. Considerando che ci sono almeno sei mila comuni sotto i 5000 abitanti, quanto costerà una campagna elettorale? Chi pagherà? A mio avviso la riduzione del numero dei parlamentari deve spingere ad abbandonare l’idea dei collegi. Naturaolmente non esiste la legge elettorale taumaturgica. La legge elettorale serve soltanto a trasformare i voti in seggi. Cosa poi si fa con quei seggi conquistati, dipende dai partiti.

Ecco, appunto. Non è un altro aspetto della crisi italiana l’inesorabile declino dei partiti?

A mio avviso, parlare di crisi dei partiti non è sufficiente. In realtà c’é unassaggio sociale s in corso, dalla società analogica verso la società digitale. Solo i Cinquestelle se ne sono resi conto. L’ha capito anche Matteo Salvini, con intelligenza: giocando sui social e sulla campagna tradizionale, rimbalzando gli effetti dell’uno sull’altra. Quei due soggetti politici si stanno già muovendo in una società diversa, digitale appunto. Anche gli altri partiti dovrebbero accorgersene.

Veniamo alla giustizia. Il presidente del CNF, Andrea Mascherin, ha chiesto al ministro Bonafede la sospensione dell’entrata in vigore della prescrizione. Sul tema della giustizia, su cui Pd e Cinquestelle parlano linguaggi diversi, a volte opposti, quale sintesi è possibile?

Il principio da cui partire è che non puoi avere un sistema che crea imputati a vita. Si determinano conseguenze paradossali: a quel punto, infatti, che bisogno c’è di fare i processi? Considerando che la magistratura è sotto organico, e che la politica da sempre nuovi compiti, il magistrato cerca di fare quello che puoi evitando di ricorrere alla prescrizione. La mia proposta è questa: perché non si va nei singoli tribunali a vedere perché si prescrivono i processi, a verificare cosa manca nel singolo distretto, nel Tribunale? Ci saranno dei dati da studiare e bisognerà verificare anche le ragioni del mancato funzionamento: se è per inerzia, incapacità, o mancanza di mezzi. Se non si va alla radice dei problemi, non si riesce a risolverli. Le realtà dei Tribunali sono diverse da zona a zona.

Ma visto che la riforma della prescrizione entra in vigore a gennaio, bisogna sospenderla o no?

La mia idea è rimandarla di un anno, per verificare nel frattempo le condizioni reali dell’esercizio della giustizia. Io lo dico così: non è sbagliato porre il problema da parte dei Cinquestelle. È sbagliata la soluzione.