«Non vi sono attualmente in Francia le condizioni politiche perché una simile fusione proceda con successo» – questo diceva Fca nel comunicato con cui quest’estate dichiarava di ritirare la proposta di accordo con Renault. John Elkann sbatteva la porta e se ne andava. «Non ci sono in Francia le condizioni politiche». E le “condizioni politiche” avevano un nome e un cognome e si chiamavano Bruno Le Maire, ministro dell’Economia, che mentre il board di Renault era riunito per sigillare l’intesa con Fca chiedeva di non avere fretta a chiudere e che c’erano ancora condizioni da rispettare, nell’interesse di Renault e della Francia: «Prendetevi il tempo per fare le cose bene». E invitava a un ulteriore rinvio, forse anche per capire esattamente le scelte di Nissan, partner strategico di Renault, che era passata da un’iniziale apertura a una sempre maggiore ostilità, fino a paventare la riscrittura degli accordi di Alleanza con Renault.

Beh, sembra che adesso le condizioni politiche per l’accordo con Psa ci siano. I numeri sono quelli: se il progetto con Renault fosse andato in porto si sarebbe creato il terzo gruppo nel mondo, con un fatturato di circa 170 miliardi di euro, capace di immettere sul mercato circa 9 milioni di autoveicoli; con Psa si parla di 9 milioni di autoveicoli e 180 miliardi di euro di fatturato. Cambiano i marchi: prima ci sarebbero stati Dacia, Lada, Renault Samsung Motors, Alpine; ora arrivano Peugeot, Citroën, DS, Opel e Vauxhall Motors. Cambiano anche le sinergie: Psa è debole negli Stati uniti e ben posizionata in Cina e Asia; per Fca è viceversa.

Funzionerà in autunno quel che non ha funzionato d’estate? A leggere certe analisi di consulenza strategica – che so, McKinsey o Alix Partners – sembra di leggere pagine del Capitale di Karl Marx. Prima, il «deserto dei profitti» evocato da Alix Partners, poi McKinsey, che parla di «tempesta perfetta» che si prospetta per l’industria automobilistica, a causa della montagna di investimenti che sta prosciugando i profitti. Il grande vecchio parlava di «caduta tendenziale del saggio di profitto», ossia quella legge economica per cui la diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante fa sì che a parità di condizioni il saggio di profitto – ossia il rapporto tra il plusvalore e il capitale complessivo investito nella produzione – diminuisca. E aggiungeva: «nella misura in cui il saggio di profitto è il pungolo della produzione capitalistica, così come la valorizzazione del capitale è il suo unico scopo, la sua caduta rallenta la formazione di nuovi capitali indipendenti e appare come una minaccia per lo sviluppo del processo di produzione capitalistico». Amen.

Dove vanno tutti questi investimenti? Verso lo sviluppo di un’auto nuova, in grado di restare connessa con l’ambiente e di muoversi da sola. Il grosso dei soldi però va nello sviluppo di macchine a batteria: 275 miliardi di dollari investiti dai costruttori finora e si andrà avanti così. Per lanciare, secondo stime, oltre 300 nuovi veicoli elettrici da qui al 2025, concentrati più sull’alto di gamma ( dove sono i margini e i clienti sensibili alle mode) e meno sulle utilitarie, dove però avrebbe più senso: abbassare le emissioni nelle città. E la reale finalità è evitare le multe – con le norme sulle emissioni previste per il 2020 o si emette poca anidride carbonica oppure si è fatti fuori; la soluzione si chiama elettrificazione – diminuendo le emissioni di CO2 del mix delle vendite. A quanto pare il conto del riscaldamento globale rischia di pagarlo in gran parte l’auto.

Sul fronte dei costi di produzione, il coro è quasi unanime nel sostenere che ormai hanno già grattato il fondo. I costruttori si sono resi progressivamente conto che forse unendo le forze possono farcela. Si contano 254 partnership dal 2014 a oggi, di cui due terzi orientate a sostenere il peso degli investimenti sui motori tradizionali e su quelli elettrici e il resto invece dedicato alla connettività e alla mobilità, le aree dei futuri auspicati profitti. La fusione Fca- Psa rientra in questi tentativi.

A Marchionne sarebbe piaciuto l’accordo con Opel. Quello che aveva provato lui era stato bloccato dai sindacati e dal governo tedesco, che non si fidavano della sue promesse di investimento. Marchionne aveva la fissa delle fusioni. D’altronde quando il primo giugno del 2004 venne nominato amministratore delegato – era da poco diventato consigliere d’amministrazione – sapeva benissimo che quella era la strada per salvare Fiat. Nel 2002, FIAT perdeva circa 5 milioni di euro al giorno.

Da anni non produceva modelli di successo. La situazione era così grave che la famiglia Agnelli aveva trovato un accordo per vendere entro pochi anni le sue quote alla rivale americana General Motors. Per tutto il Dopoguerra, FIAT aveva prosperato in Italia praticamente al riparo dalla concorrenza, grazie alla protezione che le era stata accordata dai vari governi. Era considerata come un bene di Stato: non poteva fallire. Ma con l’integrazione europea e l’apertura ai mercati internazionali e la concorrenza, non riusciva a far fronte al nuovo scenario.

Per FIAT non si vedeva un futuro possibile. Marchionne sapeva che il mercato delle automobili era diventato molto più piccolo rispetto al passato, e che la crisi avrebbe comportato trasformazioni enormi – tecnologiche, aziendali, di consumi – e niente sarebbe stato più come prima. C’era spazio solo per pochi produttori molto forti, capaci di fare economia di scala e di investire enormi somme di denaro nella ricerca e nelle nuove tecnologie, che nel caso delle auto sono particolarmente costose e complesse.

FIAT da sola era perduta. Poi, arrivò Barack Obama e l’offerta di salvare la Chrysler. Nel 2014, FIAT e Chrysler si fusero in un’unica entità: Fiat Chrysler Automobiles, FCA. Oggi, Jeep e Ram sono marchi fortemente posizionati nel mercato statunitensi. L’Italia è sempre più lontana, dal cuore di Fca. Restano stabilimenti e lavoratori sostanzialmente stabili, ma l’Italia è un paese dove il costo medio di un’auto venduta è sui quindicimila euro, cifra lontana, lontanissima da ogni margine di profitti: è nella gamma alta, nei Suv, nella tecnologia che sta la ciccia. Forse, senza Marchionne, la Fiat sarebbe già scomparsa. Però, a pensarci, sta scomparendo lo stesso.