Il ricordo fatto da Ugo Intini su “Il Dubbio” di Giuliano Vassalli ha il pregio di averne delineato la figura intrecciando il suo lavoro di avvocato e giurista con la sua passione politica.

Il Codice di Procedura Penale che Vassalli tenne a battesimo come Ministro non è solo l’unico codice emanato in età repubblicana , ma come Intini ricorda, è il frutto dell’esperienza della prigionia politica, della lotta per la libertà e delle culture politiche che hanno ricostruito l’Italia. I continui interventi sul suo testo, spesso ispirati ad una logica aliena e contraria alla sua ispirazione, non sono solo un attacco al garantismo, ma alla concezione liberale, umanitaria e personalistica che ha fondato la Costituzione.

Non è sorprendente che il codice di procedura penale non sia conosciuto nella prassi come “Il codice Vassalli”, così come invece il suo predecessore era conosciuto come “Il codice Rocco”. I nemici del sistema accusatorio hanno occultato la paternità del nuovo rito per non rivelarne le origini democratiche , in contrapposizione con quelle autoritarie del vecchio codice. Quasi che le regole con cui lo Stato limita e coarta la libertà dei cittadini siano norme tecniche , del tutto indifferenti alle impostazioni filosofiche del legislatore.

Contro questa idea, che pure nella prima fase dell’Età Repubblicana ebbe molti seguaci e che vide in Giovanni Leone ( che della grande scuola napoletana di Rocco e Manzini era erede) il suo principale alfiere, Vassalli lottò trovando un alleato in Aldo Moro, cui notoriamente si deve larga parte del richiamo nei principi fondamentali della Costituzione al processo penale.

E non è un caso che Vassalli e il PSI spinsero a trattare per salvare Moro durante la sua prigionia in nome del primato, che è la base del pensiero moroteo, del primato della persona sulla Ragion di Stato . La “vulgata “odierna identifica Moro nell’architetto del “compromesso storico” e dell’accordo con il PCI, in virtù della sua militanza nell’ala sinistra della DC.

E’ una ricostruzione politica parziale fino alla scorrettezza . Il grande interlocutore di Moro non furono mai i comunisti, di cui comprendeva la radicale inconciliabilità con la democrazia liberale , ma il PSI con il quale sempre volle concludere un’alleanza strategica , fin dai tempi dei primi governi del centrosinistra, dove ebbe come vice premier un grande giurista napoletano , il socialista Francesco De Martino .

Proprio l’alleanza organica del PSI di De Martino con il PCI indusse Moro ( che nella DC si caratterizzò sempre per posizioni moderate e non fu mai esponente della sinistra di base) a non lasciare i socialisti in balia di uno schieramento tipo “Fronte Popolare” che avrebbe non solo spaccato l’Italia degli anni di piombo , ma reso minoritario e ininfluente il riformismo . Craxi e De Mita , con la loro alleanza competitiva negli anni 80 sono stati i veri eredi del pensiero politico di Moro e il “Codice Vassalli” che di quella stagione è stato il miglior frutto ne è la chiara espressione.

La “damnatio memoriae” della Prima Repubblica ha prodotto la svalutazione della portata politica del codice “Vassalli” e l’interessato discredito del suo impianto concettuale, definito nella migliore delle ipotesi astratto e contrario alle esigenze di sicurezza dei cittadini. Il populismo giudiziario e la invocazione continua del carcere vengono da lontano, non sono una invasione barbarica in un Paese dove l’immaginario collettivo delineato dagli sceneggiati televisivi non è fatto di avvocati ma di marescialli e commissari ( e se va bene preti detective). Per combattere l’inquisizione permanente occorre dare alle garanzie e al processo penale italiano la loro dignità storica e politica e allo stesso tempo riconoscere i meriti del riformismo italiano del secondo dopoguerra. Cominciamo a chiamare le cose con il loro nome : il codice di procedura penale porti il nome di Vassalli.