Negli ordinamenti democratici c’è un’opposizione parlamentare che contrasta l’azione del governo e aspira a sostituirlo alle elezioni successive. E c’è una maggioranza parlamentare che sostiene il governo. Ma noi, nel bene e nel male, siamo una mosca bianca in tutto. Da noi l’opposizione, per quanto può, fa buona guardia. Ma sovente si colloca a destra e a sinistra del governo. Come è accaduto durante il precedente gabinetto Conte. E perciò, in assenza di bipolarismo, le opposizioni più che nelle elezioni confidano nei ribaltoni. Ovverosia nel trasformismo, una specialità tutta italiana. Mentre la maggioranza, o per meglio dire una sua parte, sostiene il ministero come la corda sorregge l’impiccato. Con il risultato che all’opposizione di fuori si aggiunge, una gran brutta gatta da pelare, l’opposizione di dentro. Oplà, le opposizioni si sono sdoppiate: ora sono sia fuori che dentro al governo

Non a caso il vertice di maggioranza che si è svolto nottetempo ha fatto slittare il Consiglio dei ministri, inizialmente previsto per le ore 21 di lunedì con il decreto terremoto tra i punti all’ordine del giorno. A riprova che le intese, quando ci sono, sono scritte sull’acqua. Così Di Maio impone a Conte una manovra riveduta e corretta.

Certo, ogni anno che Domineddio manda in terra, c’è da approvare la manovra economica. E tutti, opposizioni e maggioranza, strepitano come le oche del Campidoglio. Ma stavolta è diverso. Non si spara sul pianista di Palazzo Chigi al solo fine di portare a casa quanto più possibile. No, si spara anche per partito preso. Perché mai come in questi giorni si aggira per la Capitale il fantasma di Thomas Hobbes.

Homo homini lupus. Tutti hanno conti da regolare con qualcuno. Il centrodestra era morto. E allora, all’insegna del novismo lessicale, evviva la coalizione degli italiani che piace a Salvini. Evviva la coalizione dei patrioti che piace a La Russa. Una coalizione finalmente unita e al tempo stesso distinta, se non distante.

Il Capitano leghista considera Conte il nemico pubblico numero uno. Il Professore era considerato una entité négligeable.

Ma a un certo punto si afferra per i capelli come il barone di Münchausen, esce allo scoperto e nella seduta del Senato del 20 agosto scorso a Salvini ne dice tante da ridurlo un colabrodo. Dalle scarpe fa uscire non sassolini ma pietre. Però infierisce soprattutto per farsi la fama di ammazzasalvini, per diventare l’eroe del giorno e per tornare a Palazzo Chigi. Cosa che nella storia d’Italia è riuscita a pochi, con una maggioranza diversa. Fuori la Lega, dentro il Pd. Una vecchia volpe come Salvini si è fatto giocare da Zingaretti, che gli aveva garantito il disco verde alle elezioni, e da Renzi, che con una giravolta delle sue per un anno ha detto mai e poi mai con i pentastellati e poi ci si è fidanzato.

Se Salvini piange, ma con un gruzzolo del 30 per cento di consensi, Berlusconi non ride. Tutti i suoi aspiranti delfini hanno fatto una gran brutta fine. Sono diventati tonni. E il vecchio leone forzista si è immalinconito per essere costretto a fare da ruota di scorta al Capitano, lui che per un ventennio ha diretto l’orchestra. Chi esce meglio di tutti è Giorgia Meloni. Un leader in pratica senza partito, perché c’è lei sola, che sta crescendo a vista d’occhio. Per le sue indubbie qualità oratorie ma anche grazie alle disgrazie altrui. Per un anno si è appiattita fin troppo su un Salvini che le ha scippato le idee forza della Destra. E adesso vola alto per conto suo, rivendicando l’unità nella diversità. Patti chiari e amicizia lunga.

Ma il Vietnam, con buona pace di un Calderoli che fa il diavolo a quattro per crocifiggere il governo, lo sta provocando soprattutto la maggioranza. Che Renzi, con la sua Italia viva dall’incerto futuro, faccia di tutto per ridurre alle corde il presidente del Consiglio non è una novità. Certo, deve fare la voce grossa per dimostrare di esistere. Fatto sta che tutte le volte che ha sponsorizzato un personaggio se n’è fatto un nemico. E’ stato lui a volere Mattarella al Quirinale, e dopo un po’ tra i due è calato un grande freddo. E’ stato lui a indicare al capo dello Stato Gentiloni come suo successore a Palazzo Chigi. E tanto ha fatto, tanto ha detto, che dopo un po’ hanno rotto i rapporti. E con Conte le cose non potevano andare diversamente.

Ora Renzi assicura che la legislatura arriverà fino al 2023. Ma non scommetterebbe un soldo bucato sulla permanenza di Conte fino a quella data.

Di Maio, nel suo piccolo, non è da meno. Anche lui ha fatto carte false per insediare ancora una volta Conte a Palazzo Chigi. Ma adesso non se ne fida. Ritiene che sia cresciuto troppo in fretta. Teme che con il tempo possa scippargli il partito. Sospetta che se l’intenda fin troppo con Zingaretti. Ed ecco che si salda l’opposizione di fuori con quella di dentro. Da una parte filano d’amore e d’accordo, per quanto possibile, Salvini, la Meloni e Berlusconi. Dall’altra si registra sotto banco un’intesa cordiale tra Renzi e Di Maio. L’intento comune è quello di fare la festa prima o poi all’avvocato del popolo. E intanto lo stanno rosolando a fuoco lento. L’importante, si sa, è volersi bene.